• Urbanistica


    Sanatoria paesaggistica di volumi tecnici

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    N. 01945/2016REG.PROV.COLL.

    N. 04497/2013 REG.RIC.

    REPUBBLICA ITALIANA

    IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

    Il Consiglio di Stato

    in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

    ha pronunciato la presente

    SENTENZA

    sul ricorso numero di registro generale 4497 del 2013, proposto da: 
    L.I., rappresentato e difeso dall'avvocato Francesco Saverio Esposito, con domicilio eletto presso Massimo Lauro in Roma, Via Ludovisi, 35;

    contro

    Soprintendenza Beni Architettonici e Paesaggistici e Patrimonio Storico Artistico e Etno. Napoli e Prov., Ministero Per i Beni e Le Attivita' Culturali, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12; Comune di Massa Lubrense;

    per la riforma

    della sentenza del T.A.R. CAMPANIA - NAPOLI: SEZIONE VII n. 04805/2012, resa tra le parti, concernente parere di non compatibilità paesaggistica

     

    Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

    Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero per i beni e le attività culturali e della Soprintendenza;

    Viste le memorie difensive;

    Visti tutti gli atti della causa;

    Relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 aprile 2016 il Consigliere di Stato Giulio Castriota Scanderbeg e uditi per le parti l’avvocato Esposito e l’avvocato dello Stato Andrea Fedeli;

    Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

     

    FATTO e DIRITTO

    1.- I.L., proprietario di un immobile ad uso abitativo a Massa Lubrense, impugna la sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Campania 26 novembre 2012 n. 4805 che ha respinto il ricorso dallo stesso proposto avverso la nota n.14640 del 2014 della Soprintendenza ai beni archeologici e paesaggistici di Napoli e provincia con cui è stato espresso parere negativo nel procedimento di sanatoria paesaggistica di alcune opere edilizie realizzate sine titulo e di poi oggetto di domanda di sanatoria ai sensi dell’art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 e, ai fini paesaggistici, dell’art. 167 del d.lgs n. 42 del 2004 ( recante il Codice dei beni culturali e del paesaggio).

    In particolare, il parere contrario della competente Soprintendente è maturato in relazione alla non modificabilità della falda del tetto, inciso da un abbaìno abusivamente realizzato nonchè dalla natura dell’intervento edilizio, ascrivibile alla categoria della ristrutturazione e non della manutenzione straordinaria.

    L’appellante insiste nel reiterare i motivi di primo grado, a suo dire erroneamente disattesi dal giudice di prime cure, evidenziando la natura di vano tecnico riferibile all’abbaìno ( di appena 2 mc) realizzato per la migliore illuminazione del sottotetto in occasione della sua riqualificazione edilizia regolarmente denunciata all’autorità comunale.

    Insiste pertanto per l’accoglimento, con l’appello, del ricorso di primo grado, con consequenziale annullamento degli atti in quella sede gravati.

    L’appellante ha prodotto memoria illustrativa in vista dell’udienza di discussione.

    All’udienza pubblica del 28 aprile 2016 il ricorso è stato trattenuto per la sentenza.

    2.- L’appello è fondato e va accolto.

    3.- La questione centrale da dirimere attiene alla legittimità del provvedimento soprintendentizio gravato in primo grado, col quale l’autorità preposta alla tutela vincolo paesaggistico si è negativamente determinata, nel procedimento di cui all’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, riguardo alla sanatoria paesaggistica di un piccolo intervento edilizio realizzato dal ricorrente nel vano sottotetto.

    In particolare, le ragioni del diniego si sono appuntate sulla impossibilità di accordare il provvedimento favorevole a fronte di nuove volumetrie e superfici realizzate dall’odierno appellante nella costruzione di un modesto abbaìno ( che si sviluppa su una superficie di circa 4,40 mq ed occupa un volume d’ingombro di circa 2 mc), funzionale a dare luce al vano sottotetto.

    4.- Il Collegio è del parere che nei casi, come quello in esame, in cui l’opera nuova rientra nella nozione del vano tecnico, e cioè dello spazio fisico privo di autonomia funzionale ma meramente servente e pertinenziale rispetto ad una costruzione principale, l’Autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, chiamata a pronunciarsi in sede di cd sanatoria paesaggistica, debba valutare la compatibilità dell’intervento con i valori paesaggistici espressi dal decreto di vincolo, senza poter opporre in senso ostativo alla stessa ammissibilità di detta valutazione l’intervenuta realizzazione di nuove superfici e nuovi volumi ( cfr., in termini, Cons. St.,VI, n.5932 del 2014).

    In linea preliminare, occorre muovere dalla rilevazione del contenuto dell’art. 167 (Ordine di rimessione in pristino o di versamento di indennità pecuniaria) d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, il cui comma 4 prevede che l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei casi indicati (per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica; per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380); il comma 5 consente al proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi di cui al comma 4 di presentare apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi che, qualora venga accertata, comporta il pagamento di una indennità pecuniaria equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione.

    La Soprintendenza non può tuttavia sottrarsi all’esame della concreta fattispecie sottoposta al suo scrutinio semplicemente evidenziando che le opere non rientrano nella casistica prevista dall'articolo 167, comma 4, lettere a) e c) del decreto legislativo n. 42 del 2004, in quanto avrebbero comportato la realizzazione di volume ex novo, con conseguente incremento della volumetria legittima.

    Non appare dubitabile in punto di fatto che in termini edilizi ed urbanistici – vale a dire, secondo il linguaggio ed i parametri che, seppure incongruamente rispetto al contesto, usa l’art. 167 – l’abbaìno di cui si controverte sia un volume tecnico, perché servente rispetto al vano sottotetto ( avendo la sola funzione di darvi aria e luce).

    Ne consegue che, proprio per il detto rinvio alle categorie evocate dalla disposizione, la Soprintendenza avrebbe dovuto non già dichiarare l’intervento senz’altro non rientrante nelle fattispecie dell’art. 167, bensì procedere alla sua valutazione in concreto e postuma di compatibilità paesaggistica. Sarebbe stato cioè necessario, data la natura di volume tecnico, procedere a un concreto accertamento di compatibilità paesaggistica, con una valutazione effettiva e concreta rispetto ai valori tutelati ( cfr. in tali sensi Cons. St., VI, n. 5932 del 2014).

    5.- Non può dunque essere condiviso l’assunto dell’Amministrazione fondato su una non condivisibile corrispondenza tra l’ambito urbanistico e quello della tutela paesaggistica in ordine alla nozione di “volume tecnico”, laddove invece l'introduzione legislativa di concetti quali "superfici utili" o "volumi", in un ambito normativo che attiene solo e soltanto alla tutela del paesaggio non può che aver riferimento, per l'appunto, “a quelle superfici utili o a quei volumi idonei ad apportare una modificazione alla realtà preesistente, tale da arrecare un "vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio”.

    L’impostazione, che fonda sulla separatezza delle nozioni tecniche di “superfici utili” e “volumi tecnici” a seconda della loro diversa applicazione nel campo urbanistico o in ambito paesaggistico nel quale ogni modificazione alla realtà preesistente determina “di per sé vulnus" agli interessi superiori di tutela del paesaggio, non è suscettibile di condivisione.

    In realtà, le nozioni tecniche in questione non sono specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma solo dalle normative sulle costruzioni (in via esemplificativa e non esaustiva, circolare del Ministero dei lavori pubblici 23 luglio 1960, n. 1820; artt. 5 e 6 d.m. 2 agosto 1969; art. 3 d.m. 10 maggio 1977; art. 1 d.m. 26 aprile 1991; art. 6 d.m. 5 agosto 1994), dove la superficie utile (SU) coincide -in estrema sintesi- con l’area abitabile (superficie di pavimento degli alloggi misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e finestre, di eventuali scale interne, di logge e balconi) mentre per superficie accessoria (SA) si intendono le parti dell’edificio destinate ad accessori e servizi (cantine, locali tecnologici, vano ascensore e scale, terrazze, balconi, logge e quant’altro).

    A sua volta il volume degli edifici, espresso in metri cubi vuoto per pieno, è costituito dalla sommatoria della superficie delimitata dal perimetro esterno dei vari piani per le relative altezze effettive misurate da pavimento a pavimento del solaio sovrastante; il volume tecnico si riferisce alle opere edilizie a servizio dell’edificio, che hanno una funzione strumentale, anche se necessariamente essenziale, in relazione all’uso della costruzione principale, senza assumere il carattere di vani chiusi utilizzabili a fini abitativi.

    Dunque, come già ritenuto da questa Sezione del Consiglio di Stato (Sez. VI, 31 marzo 2014, n. 1512), “la nozione di ‘volume tecnico’, non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a un’opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere -e sempre in difetto dell’alternativa- quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo”.

    Quindi non può essere ipotizzato - nella locuzione “superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente autorizzati” - un’accezione in termini atecnici o eccedenti il loro significato specialistico, per giungere senz’altro alla conclusione di un’astratta preclusione normativa rispetto a una valutazione che va invece ragionevolmente espressa in funzione della essenzialità dell’abbaìno di che trattasi, in modo da porlo in concreta ed effettiva relazione (avuto riguardo anche alle sue modeste dimensioni), ai fini del successivo giudizio di compatabilità paesaggistica, rispetto al contesto paesaggistico tutelato.

    Né da ultimo appare condivisibile quanto osservato dal Tar a proposito della mancata allegazione, da parte dell’interessato, di elementi probatori da cui desumere la compatibilità paesaggistica dell’intervento, trattandosi di valutazione riservata all’autorità preposta alla tutela del vincolo, senza possibilità alcuna di inversione dell’onere dimostrativo ( in definitiva, è l’Autorità che deve dimostrare l’eventuale incompatibilità dell’intervento edilizio con i valori paesaggistici dei luoghi e non il privato a comprovare in positivo la compatibilità).

    6.-Alla luce dei rilievi che precedono, l’appello va accolto e, in riforma della impugnata sentenza ed in accoglimento del ricorso di primo grado, va disposto l’annullamento dell’atto gravato in prime cure.

    7.- Quanto alle spese del doppio grado di giudizio, ricorrono giusti motivi per far luogo alla loro compensazione tra le parti, tenuto conto della particolarità della vicenda trattata.

    P.Q.M.

    Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sul ricorso di cui in epigrafe ( RG n.4497/13) lo accoglie e per l’effetto, in riforma della impugnata sentenza, annulla il provvedimento in primo grado impugnato.

    Spese del doppio grado di giudizio compensate.

    Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

    Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 aprile 2016 con l'intervento dei magistrati:

    Sergio Santoro, Presidente

    Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere, Estensore

    Dante D'Alessio, Consigliere

    Andrea Pannone, Consigliere

    Vincenzo Lopilato, Consigliere

    L'ESTENSORE

    IL PRESIDENTE

    DEPOSITATA IN SEGRETERIA

    Il 13/05/2016

    IL SEGRETARIO

    (Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

    Ultimo aggiornamento Mercoledì 18 Maggio 2016 10:56
     

    Acquisizione sanante

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    ORDINANZA N. 100

    ANNO 2016

     

    REPUBBLICA ITALIANA

    IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    composta dai signori: Presidente: Paolo GROSSI; Giudici : Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,

     

    ha pronunciato la seguente

    ORDINANZA

    nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), introdotto dall’art. 34, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda, con ordinanza del 2 marzo 2015, iscritta al n. 131 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell’anno 2015.

    Visti gli atti di intervento di SEP – Società Edilizia Pineto spa e del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 20 aprile 2016 il Giudice relatore Nicolò Zanon.

     

    Ritenuto che il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda, con ordinanza del 2 marzo 2015, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti «CEDU»), questioni di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), introdotto dall’art. 34, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111;

    che la questione di legittimità costituzionale è sollevata nel corso di un giudizio avente ad oggetto una procedura espropriativa posta in essere dal Comune di Roma ed originata dall’intervenuta approvazione, con la delibera della Giunta municipale n. 6644 datata 8 agosto 1980, del progetto per la realizzazione di opere di viabilità, con contestuale dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza dei lavori, su una porzione di terreni di proprietà dei ricorrenti;

    che, effettuata l’occupazione delle aree, le opere risultano essere state realizzate senza che il Comune resistente abbia portato a termine la procedura espropriativa mediante adozione di legittimo decreto di esproprio;

    che il giudice rimettente, in punto di rilevanza, osserva che la fattispecie concreta rientra «nell’ambito di applicazione del citato art. 42-bis» del d.P.R. n. 327 del 2001, che affida esclusivamente all’autorità amministrativa la scelta di determinarsi in ordine all’eventuale acquisizione delle aree irreversibilmente trasformate, con l’adozione del provvedimento disciplinato dalla norma censurata;

    che, dunque, il giudice rimettente afferma che «dovrebbe limitarsi a ordinare alla resistente Amministrazione Comunale di procedere alla restituzione alla società ricorrente delle aree illegittimamente occupate, previa riduzione in pristino, e a risarcire il danno per l’occupazione illegittima»;

    che, tuttavia, il giudice a quo ricorda che «l’Amministrazione può paralizzare tale pronuncia mediante l’adozione del provvedimento con cui disporre l’acquisto ex nunc del bene al suo patrimonio indisponibile, con corresponsione al proprietario di un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subito»;

    che, quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice rimettente dubita, in primo luogo, della compatibilità della disposizione censurata con gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto riserverebbe un trattamento privilegiato alla pubblica amministrazione che abbia commesso un fatto illecito, con l’attribuzione della facoltà di mutare – successivamente all’evento dannoso prodotto nella sfera giuridica altrui, e per effetto di una propria unilaterale manifestazione di volontà – il titolo e l’ambito della responsabilità, nonché il tipo di sanzione (da risarcimento in indennizzo) stabiliti in via generale dal precetto del neminem laedere, sottraendo così al proprietario l’intera gamma delle azioni di cui disponeva in precedenza a tutela del diritto di proprietà (con particolare riferimento all’azione restitutoria) e la stessa facoltà di scelta di avvalersene o meno;

    che il giudice a quo dubita, inoltre, della compatibilità dell’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni con gli artt. 42 e 97 Cost., in quanto il primo e fondamentale presupposto per procedere al trasferimento coattivo di un immobile mediante espropriazione, ai sensi dell’art. 42 Cost., è costituito dalla necessaria ricorrenza di «motivi d’interesse generale», consacrati nella previa dichiarazione di pubblica utilità dell’opera: tale garanzia sarebbe stata del tutto cancellata dalla norma in esame, la quale, peraltro, ometterebbe di fissare termini certi per l’inizio ed il completamento del procedimento, esponendo il diritto di proprietà al pericolo dell’emanazione del provvedimento acquisitivo senza limiti di tempo;

    che il giudice rimettente ritiene, ancora, la norma censurata contrastante con l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto non sarebbe conforme ai principi della CEDU, secondo l’interpretazione fornita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti «Corte EDU») dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla medesima Convenzione;

    che, ricorda il giudice a quo, la Corte EDU avrebbe in più occasioni considerato «in radicale contrasto» con la CEDU il principio dell’“espropriazione indiretta”, con la quale il trasferimento della proprietà del bene dal privato alla pubblica amministrazione avviene in virtù della constatazione della situazione di illegalità o illiceità commessa dalla stessa amministrazione, con l’effetto di convalidarla, consentendo a quest’ultima di trarne vantaggio, trascurando le regole fissate in materia di espropriazione, con il rischio di un risultato imprevedibile o arbitrario per gli interessati;

    che, secondo il rimettente, non essendo consentita, dalla giurisprudenza della Corte EDU, la “legalizzazione dell’illegale” neppure ad una disposizione di legge, a fortiori essa non sarebbe permessa ad un provvedimento amministrativo di attuazione, quale è quello che disponga la cosiddetta acquisizione “sanante”;

    che il TAR Lazio dubita, infine, della conformità della norma censurata all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU, secondo l’interpretazione fornita dalla Corte EDU, la quale – pur non escludendo che, in materia civile, una nuova normativa possa avere efficacia retroattiva – ha ripetutamente considerato lecita l’applicazione dello ius superveniens in cause già pendenti soltanto in presenza di «motivi imperativi d’interesse generale»;

    che la disposizione censurata violerebbe questi principi, in quanto, malgrado la precisazione contenuta nel suo primo comma, secondo cui l’atto di acquisizione è destinato a non operare retroattivamente, il contenuto dell’ottavo comma della medesima disposizione confermerebbe la possibilità dell’amministrazione di utilizzare il provvedimento “sanante” ex tunc, per fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi sia già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato;

    che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, sostenendo la manifesta infondatezza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, in quanto già dichiarate non fondate con la sentenza n. 71 del 2015 della Corte costituzionale, depositata in cancelleria in data 30 aprile 2015;

    che, secondo la difesa statale, il legislatore, con l’introduzione dell’art. 42-bis nell’ambito del T.U. sulle espropriazioni, avrebbe inteso assicurare un corretto bilanciamento degli interessi contrapposti in caso di occupazione senza titolo – «quello della Amministrazione a conservare l’opera pubblica e quello del privato ad un ristoro per l’illegittimità subita» – inserendo nell’ordinamento un istituto affine, ma non identico, a quello precedentemente disciplinato dall’art. 43 del medesimo T.U. sulle espropriazioni, dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 293 del 2010;

    che, a giudizio della difesa erariale, le differenze tra i due istituti renderebbero la disposizione censurata immune dai vizi prospettati dal giudice rimettente;

    che nel giudizio ha depositato, in data 28 luglio 2015, atto di intervento SEP Società Edilizia Pineto spa, aderendo – seppure in via subordinata rispetto all’eccezione di irrilevanza delle questioni di legittimità costituzionale – alle censure prospettate dal giudice rimettente e specificando di non essere parte del giudizio a quo, ma di altro giudizio avente ad oggetto una diversa procedura espropriativa illegittima, in cui pure potrebbe trovare applicazione l’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni.

    Considerato che il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), introdotto dall’art. 34, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, in riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo per contrasto con l’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e con l’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla medesima Convenzione;

    che, in via preliminare, e conformemente alla giurisprudenza costante di questa Corte (sentenza n. 71 del 2015, nonché, da ultimo, sentenze n. 2 del 2016, n. 236, n. 221 e n. 210 del 2015), va dichiarato inammissibile l’intervento di SEP – Società Edilizia Pineto spa, che ha del resto esposto di non essere parte del giudizio a quo, ma di altro giudizio avente ad oggetto una diversa procedura espropriativa asseritamente illegittima, in cui pure potrebbe trovare applicazione l’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni;

    che il giudice a quo si trova a decidere sulla legittimità di una procedura espropriativa nella quale, effettuata l’occupazione dei terreni, le opere sono state realizzate senza che l’amministrazione procedente abbia portato a termine il procedimento mediante adozione di un legittimo decreto di esproprio;

    che il giudice rimettente, in punto di rilevanza, osserva che la fattispecie concreta rientra «nell’ambito di applicazione del citato art. 42-bis»;

    che, quanto alla non manifesta infondatezza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, il giudice rimettente ha ricalcato, adottandone l’identica formulazione testuale, lo stesso percorso argomentativo delle quattro ordinanze di rimessione – due delle quali (r.o., rispettivamente, n. 89 del 2014 e n. 90 del 2014) pronunciate dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, e le restanti (r.o., rispettivamente, n. 163 del 2014 e n. 219 del 2014) emesse dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, seconda sezione – già scrutinate da questa Corte nel giudizio definito con la sentenza n. 71 del 2015;

    che con la citata sentenza n. 71 del 2015 questioni identiche a quelle ora prospettate, in riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97 e 117, primo comma, Cost., sono state dichiarate in parte non fondate, e in parte non fondate nei sensi di cui in motivazione;

    che, in ogni caso e in via preliminare, l’ordinanza di rimessione esibisce un evidente difetto di rilevanza, non essendo stato emanato, nel giudizio a quo, alcun provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni;

    che, infatti, il TAR rimettente ha affermato che dovrebbe limitarsi a ordinare alla resistente pubblica amministrazione di procedere alla restituzione alla parte ricorrente delle aree illegittimamente occupate, previa riduzione in pristino, e a risarcire il danno, e che, tuttavia, l’amministrazione potrebbe «paralizzare tale pronuncia mediante l’adozione del provvedimento con cui disporre l’acquisto ex nunc del bene al suo patrimonio indisponibile, con corresponsione al proprietario di un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subito»;

    che, pertanto, dalla stessa descrizione della fattispecie concreta esposta dal giudice a quo, risulta che l’emanazione del provvedimento ex art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni costituisce circostanza solo eventuale, non realizzatasi al momento dell’emissione dell’ordinanza di rimessione, il che esclude la necessità di fare applicazione, nel caso in esame, della norma sospettata di incostituzionalità;

    che, quindi, le sollevate questioni di costituzionalità devono essere dichiarate manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza (in tal senso anche la già ricordata sentenza di questa Corte n. 71 del 2015, in relazione ad ordinanze pronunciate dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda, dal tenore testuale analogo a quella ora decisa, e concernenti fattispecie del tutto sovrapponibili a quella in esame).

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi avanti alla Corte costituzionale.

     

    Per Questi Motivi

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), introdotto dall’art. 34, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 aprile 2016.

    F.to:

    Paolo GROSSI, Presidente

    Nicolò ZANON, Redattore

    Roberto MILANA, Cancelliere

    Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2016.

    Il Cancelliere

    F.to: Roberto MILANA

    Ultimo aggiornamento Mercoledì 11 Maggio 2016 18:20
     

    Pergotende

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    N. 01619/2016REG.PROV.COLL.

    N. 05046/2015 REG.RIC.

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    REPUBBLICA ITALIANA

    IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

    Il Consiglio di Stato

    in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

    ha pronunciato la presente

    SENTENZA

    sul ricorso numero di registro generale 5046 del 2015, proposto da: 
    M.A., rappresentato e difeso dall'avv. Matteo Di Raimondo, con domicilio eletto presso Matteo Di Raimondo in Roma, Via Savoia, 86;

    contro

    Roma Capitale, rappresentata e difesa dall'Andrea Magnanelli, domiciliata in Roma, Via del Tempio di Giove N.21;

    per la riforma

    della sentenza breve del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE I QUATER n. 05098/2015, resa tra le parti;

     


    Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

    Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;

    Viste le memorie difensive;

    Visti tutti gli atti della causa;

    Relatore nell'udienza pubblica del giorno 3 marzo 2016 il Cons. Vincenzo Lopilato e uditi per le parti gli avvocati Luca di Raimondo, per delega di Matteo di Raimondo, e Andrea Magnanelli;

    Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

     


    FATTO

    Con sentenza n. 5098/2015 del 7-4-2015 il Tribunale Amministrativo per il Lazio (Sezione Prima Quater) respingeva il ricorso proposto dal signor M.A., inteso ad ottenere l’annullamento delle determinazioni dirigenziali con cui Roma Capitale gli aveva ingiunto la sospensione dei lavori e la successiva rimozione o demolizione di opere abusivamente realizzate alla via C. n. 6.

    La predetta sentenza esponeva in fatto quanto segue: “…il sig. M.A. ha adito questo Tribunale per l’annullamento della determinazione dirigenziale del 24 luglio 2014 che ha disposto l’immediata sospensione dei lavori edilizi eseguiti in Roma, via L. C. n. 6, nonché della susseguente determinazione dirigenziale del 4 settembre 2014, dispositiva della demolizione delle opere abusivamente realizzate, consistenti “sul terrazzo di proprietà….Realizzazione di una pergotenda di circa metri quadrati 34 nei due lati liberi di detta struttura risultano installate tende plastiche scorrevoli su binari, comandate elettricamente; il timpano della struttura risulta chiuso con una tenda plastica fissa. Installazione di un elemento frangisole in lamelle di alluminio. Sul terrazzo di proprietà realizzazione di una pergotenda di circa metri quadrati 15….Chiusa da elementi in vetri mobili del tipo “a pacchetto” scorrevoli su binari; il timpano risulta chiuso con vetro fisso”. Avverso tali provvedimenti il ricorrente …deduce che l’installazione di due pergotende sarebbe ricompresa nella cd. attività libera, tenuto peraltro conto di quanto disposto dalla circolare comunale in data 9 marzo 2012 secondo cui rientrerebbero in dette attività le opere consistenti in strutture semplici quali gazebo, pergotende con telo retrattile”.

    Avverso la citata sentenza di rigetto il signor M.A. ha proposto appello dinanzi a questo Consiglio di Stato, deducendone l’erroneità e chiedendone l’integrale riforma, con il conseguente accoglimento del ricorso di primo grado.

    Ha articolato il seguente motivo: Violazione dell’articolo 6, comma 1, del DPR n. 380/2001; violazione della circolare n. 19137 del 9-3-2012; errata applicazione dell’articolo 16 della legge regionale Lazio n. 15/2008; eccesso di potere per travisamento dei fatti, erroneità dei presupposti, illogicità manifesta e carenza di istruttoria.

    Si è costituita in giudizio Roma Capitale, rilevando l’infondatezza dell’appello e chiedendone il rigetto.

    Le parti hanno prodotto memorie illustrative e di replica.

    La causa è stata discussa e trattenuta per la decisione all’udienza del 3 marzo2016.

    DIRITTO

    Con unico ed articolato motivo il signor M.A. lamenta: Violazione dell’articolo 6, comma 1, del DPR n. 380/2001; violazione della circolare n. 19137 del 9-3-2012; errata applicazione dell’articolo 16 della legge regionale Lazio n. 15/2008; eccesso di potere per travisamento dei fatti, erroneità dei presupposti, illogicità manifesta e carenza di istruttoria.

    L’appellante deduce in primo luogo l’erroneità della sentenza impugnata per non avere esattamente compreso e valutato la fattispecie concreta della installazione di due pergotende, la quale rientra nell’ambito di operatività dell’articolo 6 del dpr n. 380/2001 (cd. attività edilizia libera), dovendosi in proposito fare riferimento (accertamento omesso dal Tribunale) alla sussistenza di peculiari caratteristiche, quali l’amovibilità delle opere, la loro temporaneità ovvero la loro natura di arredo pertinenziale.

    Aggiunge ancora che il giudice di prime cure non avrebbe considerato che lo stesso Comune, con la Circolare n. 19137 del 9-3-2012, nel disciplinare le ipotesi di attività edilizia libera, vi aveva ricompreso le cd. “strutture semplici, quali gazebo, pergotende con telo retrattile, pergolati, se elementi di arredo annessi ad unità immobiliari e/o edilizie aventi esclusivamente destinazione abitativa”.

    Rileva, poi, che la sentenza appellata avrebbe errato nel ritenere l’opera realizzata assoggettata al preventivo rilascio del permesso di costruire, atteso che, nella specie, non era configurabile un intervento di ristrutturazione edilizia, né tampoco di nuova costruzione, difettando l’indefettibile presupposto della trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.

    Andavano, infatti, sottolineati caratteri di amovibilità, precarietà e temporaneità delle strutture realizzate, nonché la loro funzione meramente accessoria e pertinenziale all’unità abitativa.

    Lamenta, infine, la non corrispondenza tra la violazione contestata e la ragione di diniego espressa dal Tribunale. Invero, nella specie i provvedimenti gravati richiamavano l’articolo 16 della legge regionale Lazio n. 15/2008, riferentesi alle ipotesi di ristrutturazione edilizia e cambi di destinazione d’uso in assenza di titolo edilizio, mentre la sentenza di primo grado avrebbe configurato l’opera quale intervento di nuova costruzione.

    Ciò posto, rileva la Sezione che i provvedimenti impugnati dal signor M.A. qualificano le opere realizzate quale “interventi edilizi abusivi di ristrutturazione edilizia in assenza di titolo abilitativo”.

    Di poi, la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale in questa sede gravata così motiva il rigetto del ricorso: “Il ricorso è infondato e, pertanto, va respinto tenuto conto che le opere realizzate risultano avere una consistenza tale ed un ancoraggio al lastrico del terrazzo sul quale sono installate, tale da costituire, secondo un costante orientamento della Sezione, una modificazione permanente della sagoma dell’edificio per la cui esecuzione deve ritenersi necessaria la previa acquisizione di apposito permesso di costruire”.

    La disamina dell’appello – a giudizio della Sezione – non può prescindere dalla considerazione della natura e della consistenza delle opere realizzate.

    Trattasi di n. 2 “pergotende”, le quali vengono analiticamente descritte sia nei provvedimenti impugnati, sia nella comunicazione ex art. 27, comma 4, del dpr n. 380/2001, prot. VB/2014/23430 del 2-4-2014.

    In particolare, in tale ultimo atto viene riferita la realizzazione di:

    1) “struttura di alluminio anodizzato atta ad ospitare una tenda retrattile in materiale plastico comandata elettricamente. Detta struttura risulta ancorata ai muri perimetrali del fabbricato e al muretto di parapetto del terrazzo; risulta altresì sorretta da pali, sempre in alluminio anodizzato, che poggiano sul pavimento del terrazzo:La struttura che occupa una superficie di circa mq. 34 risulta tamponata sui due lati liberi da tendine plastiche, scorrevoli all’interno di binari, comandate elettricamente e da teli plastici fissi (timpano e frangivento)inseriti nelle strutture di alluminio anodizzato”;

    2) “…una struttura in alluminio anodizzato atta ad ospitare un tenda retrattile in materiale plastico comandata elettricamente. Detta struttura risulta ancorata ai muri perimetrali del fabbricato e al plateatico pavimentato predetto. La struttura che occupa una superficie di circa mq. 15 risulta tamponata sui due lati liberi da lastre in vetro mobili “a pacchetto” munite di supporti che, manualmente, scorrono in appositi binari e da vetro fisso (timpano)inseriti nelle strutture di alluminio anodizzato”.

    Orbene, in relazione alla tipologia dei manufatti realizzati, così come sopra descritti, il Collegio ritiene che l’appello sia parzialmente fondato, nei sensi che di seguito si espongono.

    La Sezione evidenzia preliminarmente che la questione relativa alla non necessità del previo titolo abilitativo non può essere risolta sulla base della pretesa precarietà delle opere, fondata, a dire dell’appellante, sulla amovibilità delle strutture.

    Si osserva, infatti, che dall’articolo 3, comma 1, lett. e.5 del Testo Unico dell’Edilizia è possibile trarre una nozione di “opera precaria”, la quale è fondata non sulle caratteristiche dei materiali utilizzati né sulle modalità di ancoraggio delle stesse al suolo quanto piuttosto sulle esigenze (di natura stabile o temporanea) che esse siano dirette a soddisfare.

    Invero, la norma qualifica come “interventi di nuova costruzione” (come tali assoggettati al previo rilascio del titolo abilitativo), “l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes , campers, case mobili, imbarcazioni che siano utilizzati come abitazioni , ambienti di lavoro oppure depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee…”.

    Dunque, la natura di opera “precaria” (non soggetta al titolo abilitativo) riposa non nelle caratteristiche costruttive ma piuttosto in un elemento di tipo funzionale, connesso al carattere dell’utilizzo della stessa.

    Ciò posto, trattandosi nella specie di strutture destinate ad una migliore vivibilità dello spazio esterno dell’unità abitativa (terrazzo), è indubitabile che le stesse siano state installate non in via occasionale, ma per soddisfare la suddetta esigenza, la quale non è certamente precaria.

    In buona sostanza le “pergotende” realizzate non si connotano per una temporaneità della loro utilizzazione, ma piuttosto per costituire un elemento di migliore fruizione dello spazio, stabile e duraturo.

    Né, a giudizio del Collegio, risulta dirimente, ai fini della soluzione della presente controversia, la circostanza che le strutture siano ancorate ai muri perimetrali ed al suolo.

    Invero, l’ancoraggio si palesa comunque necessario, onde evitare che l’opera, soggetta all’incidenza degli agenti atmosferici, si traduca in un elemento di pericolo per la privata e pubblica incolumità.

    Chiarito per tale via che i manufatti in questione non sono “precari”, è necessario però verificare se gli stessi, in relazione a consistenza, caratteristiche costruttive e funzione, costituiscano o meno un’opera edilizia soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo.

    Orbene, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del dpr n. 380/2001, sono in primo luogo soggetti al rilascio del permesso di costruire gli “interventi di nuova costruzione”, categoria nella quale rientrano quelli che realizzano una “trasformazione edilizia e urbanistica del territorio”.

    Ciò premesso, ritiene la Sezione che la struttura in alluminio anodizzato destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico non integri tali caratteristiche.

    Va, invero, considerato che l’opera principale non è la struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell’unità abitativa.

    Considerata in tale contesto, la struttura in alluminio anodizzato si qualifica in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda.

    Quest’ultima, poi, integrata alla struttura portante, non vale a configurare una “nuova costruzione”, atteso che essa è in materiale plastico e retrattile, onde non presenta caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio.

    Tanto è escluso in primo luogo dalla circostanza che la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, in ragione del carattere retrattile della tenda (in proposito, cfr. anche la cit. circolare del Comune di Roma, 9.3.2012, n. 19137); onde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie.

    Ciò resta escluso, inoltre, in considerazione della tipologia dell’elemento di copertura e di chiusura, il quale è una tenda in materiale plastico, privo pertanto di quelle caratteristiche di consistenza e di rilevanza che possano connotarlo in termini di componenti edilizie di copertura o di tamponatura di una costruzione.

    In tale situazione, dunque, la struttura di alluminio anodizzato mantiene la connotazione di mero elemento di sostegno della tenda e non integra, dunque, la struttura portante di una costruzione, la quale, integrandosi con gli elementi di copertura e di chiusura, realizzi, così creando un nuovo organismo edilizio, una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.

    Allo stesso modo, deve ritenersi che non sia integrata la fattispecie della ristrutturazione edilizia.

    Invero, ai sensi dell’articolo 3, lettera d), del dpr n. 380/2001, tale tipologia di intervento edilizio richiede che trattasi di “interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere”, i quali “comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi e impianti”.

    Orbene, la disposizione, così come declinata dal legislatore, richiede comunque che le opere realizzate abbiano consistenza e rilevanza edilizia, siano cioè tali da poter “trasformare l’organismo edilizio”, condividendo pertanto natura e consistenza degli elementi costitutivi di esso.

    La “trasformazione” può, infatti, realizzarsi solo attraverso interventi che pongano in non cale la precedente identità dell’organismo edilizio, risultato che può realizzarsi solo quando questi abbiano una rilevanza edilizia (e, dunque, una suscettività di incidenza sul territorio) almeno pari o superiore agli elementi che costituiscono la preesistenza.

    Tali caratteristiche risultano all’evidenza non sussistenti nella fattispecie della struttura in alluminio anodizzato atta ad ospitare una tenda retrattile, avuto riguardo alla consistenza di tale intervento ed alla circostanza che l’immobile sul quale essa è collocata è un fabbricato in muratura, sulla cui originaria identità e conformazione l’opera nuova non può certamente incidere.

    Sulla base delle considerazioni sopra svolte deve, pertanto, ritenersi che la struttura realizzata e sopra descritta sub 1) non abbisognasse del previo rilascio del permesso di costruire: giacché la tenda retrattile che essa è unicamente destinata a servire si risolve, in ultima analisi, in un mero elemento di arredo del terrazzo su cui insiste.

    Di conseguenza, non può condividersi sul punto la pronuncia di rigetto del ricorso operata dal giudice di primo grado, dovendosi ritenere che i provvedimenti di sospensione dei lavori e di demolizione adottati dall’amministrazione con riferimento alla sua realizzazione siano illegittimi.

    L’appello è, di conseguenza, per tale parte fondato.

    A identiche conclusioni non può giungersi, invece, in riferimento alla struttura sopra descritta sub 2).

    Essa, invero, è pur sempre una “struttura in alluminio anodizzato atta ad ospitare una tenda retrattile in materiale plastico”.

    Che, nondimeno, si connota diversamente per il fatto di essere “tamponata sui due lati liberi da lastre di vetro mobili a “pacchetto”, munite di supporti che manualmente scorrono in appositi binari e da vetro fisso (timpano) inseriti nelle strutture di alluminio anodizzato”.

    Orbene, osserva la Sezione, conformemente ai principi in precedenza esposti, che la presenza, quali elementi di chiusura, di lastre di vetro determina il venir meno del richiamato carattere di mera struttura di sostegno di tende retrattili.

    La natura e la consistenza del materiale utilizzato (il vetro viene comunemente usato per la realizzazione di pareti esterne delle costruzioni) fa sì che la struttura di alluminio anodizzato si configuri, in questo caso, non più come mero elemento di supporto di una tenda, ma venga piuttosto a costituire la componente portante di un manufatto, che assume consistenza di vera e propria opera edilizia, connotandosi per la presenza di elementi di chiusura che, realizzati in vetro, costituiscono vere e proprie tamponature laterali.

    Sicché il manufatto in questo caso costituisce “nuova costruzione”, risultando idoneo a determinare una trasformazione urbanistico ed edilizia del territorio.

    Né in contrario riveste rilievo la circostanza che le suddette lastre di vetro siano installate “a pacchetto” e, dunque, apribili, considerandosi che la possibilità di apertura attribuisce a tale sistema la stessa portata e consistenza di una finestra o di un balcone, ma non modifica la natura del manufatto che, una volta chiuso, è vera e propria opera edilizia, come tale soggetta al rilascio del previo titolo abilitativo.

    Va, peraltro, considerato, in relazione al fatto che la struttura di cui al citato punto 2) presenta comunque come copertura una tenda retrattile in materiale plastico e, dunque, potenzialmente (e parzialmente) i caratteri di un’opera non soggetta a titolo edilizio (per la parte in cui è mera struttura di sostegno di una tenda retrattile), che il corretto esercizio del potere sanzionatorio avrebbe imposto, nella sua funzione di ripristino della legalità violata e nel rispetto del principio del mezzo più mite, una reazione proporzionata all’entità dell’abuso e, dunque, necessaria e sufficiente a riportare il realizzato nell’ambito della conformità alla normativa urbanistica (ossia senza demolire ciò che legittimamente può realizzarsi, posto che utile per inutile non vitiatur).

    L’ordine di demolizione avrebbe, di conseguenza, dovuto limitarsi alla sola rimozione delle strutture laterali in vetro in uno ai binari (inferiore e superiore) di scorrimento delle stesse, ma non anche dell’intera struttura.

    Invero, per effetto di tali rimozioni il manufatto, limitato al solo sostegno di tende in plastica retrattili, viene ricondotto a opera lecita e non abusiva, in quanto non richiedente, per tutte le considerazioni in precedenza rese, il preventivo titolo abilitativo.

    Da quanto sopra discende che, per quanto riguarda il manufatto descritto come sub 2), l’illegittimità dei provvedimenti impugnati in primo grado deve essere esclusa limitatamente alla rimozione degli elementi di chiusura laterali in vetro in uno ai binari (inferiore e superiore) di scorrimento degli stessi.

    Queste costituiscono, pertanto, le componenti dell’opera che dovranno essere rimosse in esecuzione della presente pronunzia.

    Conclusivamente, ritiene la Sezione che l’appello sia fondato in parte e debba essere accolto nei sensi e nei limiti sopra precisati; che, per l’effetto, la sentenza del Tribunale debba essere riformata parzialmente e che dunque, in parziale accoglimento del ricorso di primo grado, i provvedimenti impugnati debbano essere integralmente annullati, relativamente alla struttura di cui sub n. 1 (in quanto unicamente destinata al sostegno d’un elemento di arredo consistente in una tenda retrattile); mentre, quanto alla struttura di cui sub n. 2, vanno annullati solo in parte, ossia restando eccettuata dalla caducazione la relativa parte in cui si dispone, per tale secondo manufatto, la rimozione delle tamponature laterali in vetro e dei binari (inferiore e superiore) di scorrimento di esse. Limitatamente a tali componenti dell’opera, invero, l’appello deve essere respinto e la sentenza di rigetto di primo grado confermata, unitamente (in parte qua) all’ordine demolitorio impugnato in prime cure.

    Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16 maggio 2012 n. 7663). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

    Le spese del doppio grado, stante la parziale reciproca soccombenza tra le parti, vanno integralmente compensate.

    P.Q.M.

    Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

    definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte, nei sensi e nei limiti precisati in motivazione.

    Spese del doppio grado compensate.

    Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

    Così deciso in Roma nelle camere di consiglio dei giorni 3 marzo 2016 e 6 aprile 2016, con l'intervento dei magistrati:

     

     

    Ermanno de Francisco, Presidente

    Roberto Giovagnoli, Consigliere

    Bernhard Lageder, Consigliere

    Vincenzo Lopilato, Consigliere

    Francesco Mele, Consigliere, Estensore

     

     

     

     

    L'ESTENSORE IL PRESIDENTE

    DEPOSITATA IN SEGRETERIA

    Il 27/04/2016

    IL SEGRETARIO

    (Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

    Ultimo aggiornamento Martedì 10 Maggio 2016 09:20
     

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    N. 00002/2016REG.PROV.COLL.

    N. 00023/2014 REG.RIC.A.P.

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    REPUBBLICA ITALIANA

    IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

    Il Consiglio di Stato

    in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)

    ha pronunciato la presente

    SENTENZA

    sul ricorso numero di registro generale 23 di A.P. del 2014, proposto dalla Signora C.M., rappresentata e difesa dall'avvocato Carlo Caniglia, domiciliata ai sensi dell’art. 25 c.p.a. presso la Segreteria della Quarta Sezione del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro n. 13;

    contro

    Comune di Villa Castelli, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Giovanni Pomarico, domiciliato ai sensi dell’art. 25 c.p.a. presso la Segreteria della Quarta Sezione del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro n. 13;

    per la riforma

    della sentenza del T.a.r. per la Puglia – sede staccata di Lecce - Sezione I, n. 383 del 21 febbraio 2013.



    Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

    Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Villa Castelli;

    Vista l’ordinanza della Quarta Sezione del Consiglio di Stato – n. 3347 del 3 luglio 2014 – che ha rimesso la presente causa all’Adunanza plenaria ai sensi dell’art. 99, co.1, c.p.a.;

    Vista l’ordinanza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato - n. 28 del 15 ottobre 2014 - che ha sospeso il presente giudizio essendo pendente la questione di legittimità costituzionale della norma sancita dall’art. 42 bis, d.P.R. 8 giugno 2011, n. 327 – Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità -;

    Vista la sentenza della Corte costituzionale n. 71 del 30 marzo 2015 pubblicata nella G.U., 1° s.s., 6 maggio 2015 n. 18;

    Vista l’istanza di fissazione d’udienza e contestuale atto di riassunzione depositato dalla difesa della Signora C.M. in data 1 giugno 2015;

    Vista la memoria difensiva depositata davanti all’Adunanza plenaria dalla difesa della Signora C.M. in data 14 settembre 2015;

    Visti tutti gli atti della causa;

    Relatore nella camera di consiglio del giorno 7 ottobre 2015 il consigliere Vito Poli e uditi per le parti gli avvocati Caniglia, e Pomarico;

    Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.



    FATTO e DIRITTO

    1. L’ OGGETTO DEL PRESENTE GIUDIZIO.

    1.1. L’oggetto del presente giudizio è costituito dal provvedimento reso dal commissario ad acta - nominato in sede di esecuzione di un giudicato - recante, nella sostanza, l’emanazione di un decreto di acquisizione ex art. 42-bis d.P.R. 8 giugno 2011, n. 327 - Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – (in prosieguo t.u. espr.), in danno della odierna ricorrente.

    1.2. Più in dettaglio viene in rilievo la domanda di esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza irrevocabile del T.a.r. per la Puglia - sede staccata di Lecce, Sezione I, n. 3342 del 19 novembre 2008 che, in accoglimento del ricorso proposto dalla Signora C.M.:

    a) ha preso atto della irreversibile trasformazione di un appezzamento di terreno (di proprietà dell’istante) in giardino pubblico ad opera del comune di Villa Castelli che, sebbene avesse disposto l’occupazione d’urgenza dell’area, non aveva emanato il successivo decreto di esproprio;

    b) ha condannato il comune a restituire l’area, ovvero a concludere un accordo transattivo, o, in alternativa, ad emanare un provvedimento di acquisizione ai sensi dell’allora vigente art. 43, t.u. espr.;

    c) ha scandito dettagliatamente la tempistica di ciascuna fase ed i relativi adempimenti, formulando minute prescrizioni anche in ordine ai criteri di liquidazione, per equivalente monetario, del danno derivante dalla perdita della proprietà e del possesso sine titulo, oltre che degli accessori;

    d) ha espressamente stabilito che, trascorsi i termini concessi per ciascuno degli alternativi adempimenti, la parte privata avrebbe potuto agire in giudizio per l’esecuzione della decisione;

    e) ha condannato il comune alla refusione delle spese di lite.

    2. IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO.

    2.1. Con una prima sentenza irrevocabile resa in esecuzione del giudicato de quo agitur– T.a.r. Lecce, Sezione I, n. 2241 del 2 ottobre 2009 -:

    a) è stata assodata la sostanziale inerzia del comune ad eseguire il giudicato;

    b) è stato ordinato all’ente di dare corso a tutti gli adempimenti previsti dal giudicato entro un breve termine (45 giorni);

    c) è stata disposta la condanna dell’ente alle spese di lite.

    2.2. Con una seconda sentenza irrevocabile resa sempre in esecuzione del giudicato – T.a.r Lecce, Sezione I, n. 928 del 24 maggio 2012 -:

    a) è stato ritenuto applicabile in luogo dell’art. 43, l’art. 42-bis t.u. espr.;

    b) si è preso atto che il comune non ha inteso concludere un accordo transattivo;

    c) sono state rinnovate le statuizioni alternative, relative alla restituzione del terreno ovvero all’emanazione di un provvedimento ex art. 42-bis, accompagnate dalle consequenziali misure risarcitorie;

    d) è stato concesso un ulteriore termine di 60 giorni;

    e) è stato nominato il commissario ad acta con il mandato di provvedere a tutti gli adempimenti occorrenti per l’ottemperanza;

    f) è stata disposta l’ennesima condanna dell’ente alle spese di lite.

    2.3. Nella perdurante inerzia del comune, il commissario ad acta ha emanato, in data 10 settembre 2012, un provvedimento ex art. 43 t.u. espr. determinando il valore del bene ed il risarcimento del danno.

    2.4. Il provvedimento commissariale è stato reclamato dalla Signora Marraffa, ex art. 114, co. 6, c.p.a., sotto molteplici aspetti (cfr. atto notificato in data 4 dicembre 2012).

    2.5. Il reclamo è stato respinto dall’impugnata sentenza del T.a.r. di Lecce, Sez. I, n. 383 del 21 febbraio 2013 che, previa riqualificazione del provvedimento ex art. 42-bis cit.:

    a) ha escluso che il commissario dovesse agire nel contraddittorio delle parti, acquisendo il contributo istruttorio delle medesime;

    b) ha riconosciuto congrua la determinazione del valore del terreno in relazione alla sua inedificabilità;

    c) ha escluso che la stima dell’Agenzia del territorio, posta a base del provvedimento commissariale, fosse stata in precedenza ritenuta incongrua o inutilizzabile dal medesimo T.a.r.

    3. IL GIUDIZIO DI APPELLO DAVANTI ALLA IV SEZIONE DEL CONSIGLIO DI STATO.

    3.1. Con ricorso ritualmente notificato e depositato la Signora Marraffa ha interposto appello avverso la su menzionata sentenza articolando due autonomi motivi:

    a) con il primo (pagine 7 – 9 del gravame), ha contestato che il commissario fosse esonerato dall’obbligo di acquisire i pareri delle parti che sarebbero stati, viceversa, rilevanti e decisivi in punto di scelta fra restituzione del bene o acquisizione coattiva;

    b) con il secondo (pagine 9 – 10 del gravame), ha ribadito che il commissario, per individuare il valore del bene, non avrebbe dovuto basarsi sulla stima dell’Agenzia del territorio perché tale valutazione era stata considerata inappropriata dallo stesso T.a.r. nella sentenza n. 2241 del 2009; da qui la violazione del mandato conferito all’ausiliario dalla sentenza n. 928 del 2012 e l’invalidità, in parte qua, del provvedimento reclamato.

    3.2. Si è costituito il comune confutando analiticamente la fondatezza dell’appello di cui ha chiesto il rigetto.

    4. L’ORDINANZA DI RIMESSIONE DELLA CAUSA ALL’ADUNANZA PLENARIA ED I SUCCESSIVI SVILUPPI PROCESSUALI.

    4.1. Con ordinanza n. 3347 del 3 luglio 2014, la IV Sezione del Consiglio di Stato:

    a) ha ricostruito, in chiave storica e sistematica, l’istituto dell’acquisizione disciplinato prima dall’art. 43 e poi dall’art. 42-bis; t.u. espr.;

    b) ha dato atto del contrasto registratosi nella giurisprudenza del Consiglio di Stato circa la possibilità che in sede di esecuzione del giudicato il giudice amministrativo, direttamente o per il tramite dell’intervento del commissario ad acta, possa o meno ordinare alla P.A. di adottare un provvedimento ex art. 42-bis, ovvero limitarsi a sollecitare l’esercizio di tale potere, fissando all’uopo un termine, scaduto il quale non rimarrebbe che assicurare la sola tutela restitutoria;

    c) ha rilevato la pendenza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis t.u. espr. sollevata dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. ordinanze 13 gennaio 2014, nn. 441 e 442);

    d) all’esplicito scopo di meglio garantire l’armonico coordinamento (ed il rispetto) dei principi della effettività della tutela giurisdizionale, da un lato, e dell’autorità del giudicato, dall’altro, ha sottoposto all’Adunanza planaria la seguente questione ovvero .

    4.2. Con ordinanza dell’Adunanza plenaria - n. 28 del 15 ottobre 2014 – è stato sospeso il presente giudizio in attesa della definizione delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.

    4.3. Con sentenza parzialmente interpretativa di rigetto n. 71 del 30 marzo 2015 - pubblicata nella G.U., 1° s.s., 6 maggio 2015 n. 18 – la Corte costituzionale, in relazione ai vari parametri evocati, ha dichiarato in parte inammissibile, in parte infondata, ed in parte non fondata ai sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale del più volte menzionato art. 42-bis.

    4.4. Il giudizio è stato ritualmente proseguito con l’istanza depositata in data 1 giugno 2015 dalla difesa della signora Marraffa ed alla camera di consiglio dell’8 ottobre 2015 la causa è stata trattenuta in decisione.

    5. LA NATURA GIURIDICA, I PRESUPPOSTI APPLICATIVI E GLI EFFETTI DELLA ACQUISIZIONE EX ART. 42-BIS T.U. ESPR.

    5.1. Si riporta per comodità di lettura il più volte menzionato art. 42 - bis, t.u. espr. - Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico – come introdotto dall’art. 34, comma 1, d.l. n. 98 del 2011 convertito con modificazioni nella l. n. 111 del 2011: <<1. Valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene.

    2. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l'annullamento degli atti di cui al primo periodo del presente comma, se l'amministrazione che ha adottato l'atto impugnato lo ritira. In tali casi, le somme eventualmente già erogate al proprietario a titolo di indennizzo, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo.

    3. Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma 1 è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7. Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l'interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma.

    4. Il provvedimento di acquisizione, recante l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, è specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l'emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione; nell'atto è liquidato l'indennizzo di cui al comma 1 e ne è disposto il pagamento entro il termine di trenta giorni. L'atto è notificato al proprietario e comporta il passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ai sensi del comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell'articolo 20, comma 14; è soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell'amministrazione procedente ed è trasmesso in copia all'ufficio istituito ai sensi dell'articolo 14, comma 2.

    5. Se le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 4 sono applicate quando un terreno sia stato utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata o convenzionata, ovvero quando si tratta di terreno destinato a essere attribuito per finalità di interesse pubblico in uso speciale a soggetti privati, il provvedimento è di competenza dell'autorità che ha occupato il terreno e la liquidazione forfetaria dell'indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale è pari al venti per cento del valore venale del bene.

    6. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale; in tal caso l'autorità amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari, può procedere all'eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia.

    7. L'autorità che emana il provvedimento di acquisizione di cui al presente articolo nè dà comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti mediante trasmissione di copia integrale.

    8. Le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo.>>

    5.2. Prima di procedere alla risoluzione del quesito sottoposto all’Adunanza plenaria, è indispensabile ricostruire (limitandosi a quanto di interesse) il quadro dei condivisibili principi che, successivamente all’ordinanza di rimessione della IV Sezione, sono stati elaborati dalla Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 71 del 2015 cit.), dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. decisioni n. 735 del 19 gennaio 2015 e n. 22096 del 29 ottobre 2015) e dal Consiglio di Stato (cfr. sentenze Sez. IV, n. 4777 del 19 ottobre 2015; n. 4403 del 21 settembre 2015; n. 3988 del 26 agosto 2015; n. 2126 del 27 aprile 2015; n. 3346 del 3 luglio 2014), all’interno della consolidata cornice di tutele delineata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per contrastare il deprecato fenomeno delle del diritto di proprietà o di altri diritti reali (cfr., ex plurimis e da ultimo, con riferimento all’ordinamento italiano, Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, 3 giugno 2014, Rossi e Variale; Sez. II, 14 gennaio 2014, Pascucci; Sez. II, 5 giugno 2012, Immobiliare Cerro; Grande Camera, 22 dicembre 2009, Guiso; Sez. II, 6 marzo 2007, Scordino; Sez. III, 12 gennaio 2006, Sciarrotta; Sez. II, 17 maggio 2005, Scordino; Sez. II, 30 maggio 2000, Soc. Belvedere alberghiera; Sez. II, 30 maggio 2000, Carbonara e Ventura).

    5.3. In linea generale, quale che sia la sua forma di manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione acquisitiva), la condotta illecita dell’amministrazione incidente sul diritto di proprietà non può comportare l’acquisizione del fondo e configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c. – con la conseguente decorrenza del termine di prescrizione quinquennale dalla proposizione della domanda basata sull’occupazionecontra ius, ovvero, dalle singole annualità per quella basata sul mancato godimento del bene - che viene a cessare solo in conseguenza:

    a) della restituzione del fondo;

    b) di un accordo transattivo;

    c) della rinunzia abdicativa (e non traslativa, secondo una certa prospettazione delle SS.UU.) da parte del proprietario implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo;

    d) di una compiuta usucapione, ma solo nei ristretti limiti perspicuamente individuati dal Consiglio di Stato allo scopo di evitare che sotto mentite spoglie (i.e. alleviare gli oneri finanziari altrimenti gravanti sull’Amministrazione responsabile), si reintroduca una forma surrettizia di espropriazione indiretta in violazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale della Cedu (Sez. IV, n. 3988 del 2015 e n. 3346 del 2014); dunque a condizione che:

    I) sia effettivamente configurabile il carattere non violento della condotta;

    II) si possa individuare il momento esatto della interversio possesionis;

    III) si faccia decorrere la prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore del t.u. espr. (30 giugno 2003) perché solo l’art. 43 del medesimo t.u. aveva sancito il superamento dell’istituto dell’occupazione acquisitiva e dunque solo da questo momento potrebbe ritenersi individuato, ex art. 2935 c.c., il ;

    e) di un provvedimento emanato ex art. 42-bis t.u. espr.

    5.4. Chiarito che l’acquisizione ex art. 42-bis cit. costituisce una delle possibili cause legali di estinzione di un fatto illecito e che essa trova legittima applicazione anche alle situazioni prodottesi prima della sua entrata in vigore (§ 6.9.1. della sentenza della Corte cost. n. 71 del 2015 cit., che ha così definitivamente fugato i dubbi adombrati dalle Sezioni unite al § 4 della sentenza n. 735 del 2015 cit.), giova evidenziare che:

    a) la disposizione introduce una norma di natura eccezionale; tale conclusione è coerente con l’impostazione tradizionale che considera a tale stregua le norme limitatrici della sfera giuridica dei destinatari, con particolare riguardo a quelle che attribuiscono alla P.A. un potere ablatorio.

    Un atto definibile come espropriazione in sanatoria stricto sensu, e basato sulla illiceità dell’occupazione di un bene altrui, infatti, segnerebbe una interruzione della consequenzialità logica della disciplina generale (europea e nazionale) di riferimento in materia di acquisizione coattiva della proprietà privata, ponendosi in contrasto con essa attraverso una discriminazione – pure sancita dalla legge - del trattamento giuridico di situazioni soggettive che altrimenti sarebbero destinatarie della disciplina generale; da qui l’indefettibile necessità, ex art. 14, disp. prel. c.c., di una esegesi rigorosa della norma medesima che sia, ad un tempo, conforme al sistema di tutela della proprietà privata disegnato dalla CEDU ma rispettosa del valore costituzionale della funzione sociale della proprietà privata sancito dall’art. 42, co. 2, Cost. (che costituisce il fondamento del potere attribuito alla P.A.), secondo un approccio metodologico basato su una visione sistemica, multilivello e comparata della tutela dei diritti, a sua volta incentrata sulla considerazione dell’ordinamento nel suo complesso, quale risultante dalla interazione fra norme (interne e internazionali) e principi delle Corti (interne e sovranazionali);

    b) l’art. 42-bis, invece, configura un procedimento ablatorio sui generis, caratterizzato da una precisa base legale, semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc), il cui scopo non è (e non può essere) quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato dall’Amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì quello autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius, consistente nella soddisfazione di imperiose esigenze pubbliche, redimibili esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione di qualsiasi opera dell’infrastruttura realizzata sine titulo;

    c) un tale obbiettivo istituzionale, inoltre, deve emergere necessariamente da un percorso motivazionale - rafforzato, stringente e assistito da garanzie partecipativo rigorose – basato sull’emersione di ragioni attuali ed eccezionali che dimostrino in modo chiaro che l’apprensione coattiva si pone come extrema ratio (perché non sono ragionevolmente praticabili soluzioni alternative e che tale assenza di alternative non può mai consistere nella generica  ), per la tutela di siffatte imperiose esigenze pubbliche;

    d) sono coerenti con questa impostazione:

    I) le importanti guarentigie previste per il destinatario dell’atto di acquisizione sotto il profilo della misura dell’indennizzo (avente natura indennitaria secondo Cass. civ., Sez. un., n. 2209 del 2015 cit.), valutato a valore venale (al momento del trasferimento, alla stregua del criterio della taxatio rei, senza che, dunque, ci siano somme da rivalutare ma, in ogni caso, tenuto conto degli ulteriori parametri individuati dagli artt. 33 e 40 t.u.espr.), maggiorato della componente non patrimoniale (dieci per cento senza onere probatorio per l’espropriato), e con salvezza della possibilità, per il proprietario, di provare autonome poste di danno;

    II) la previsione del coinvolgimento obbligatorio della Corte dei conti in una vicenda che produce oggettivamente (e indipendentemente dagli eventuali profili soggettivi di responsabilità da accertarsi nelle competenti sedi) un aggravio sensibile degli esborsi a carico della finanza pubblica;

    e) per evitare che l’eccezionale potere ablatorio previsto dall’art. 42-bis possa essere esercitato sine die in violazione dei valori costituzionali ed europei di certezza e stabilità del quadro regolatorio dell’assetto dei contrapposti interessi in gioco, la disciplina ivi dettata è inserita in (ed arricchita da) un più ampio contesto ordinamentale che - in ragione della sussistenza dell’obbligo della P.A. di valutare se emanare un atto tipico sull’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto - prevede per il proprietario strumenti adeguati di reazione all’inerzia della P.A., esercitabili davanti al giudice amministrativo, sia attraverso il c.d. “rito silenzio” (artt. 34 e 117 c.p.a.), sia in sede di ordinario giudizio di legittimità avente ad oggetto il procedimento ablatorio sospettato di illegittimità (o altro giudizio avente ad oggetto la tutela reipersecutoria, come verificatosi nel caso di specie), secondo le coordinate esegetiche esplicitamente stabilite dalla sentenza n. 71 del 2015 (in particolare § 6.6.3.);

    f) assume un rilievo centrale (in particolare ai fini della risoluzione del quesito sottoposto all’Adunanza plenaria, come si vedrà meglio in prosieguo) un ulteriore elemento caratterizzante l’istituto in esame, ovvero l’impossibilità che l’Amministrazione emani il provvedimento di acquisizione in presenza di un giudicato che abbia disposto la restituzione del bene al proprietario; tale elemento – valorizzato dalla sentenza n. 71 del 2015 in coerenza coi principi elaborati dalla Corte di Strasburgo - si desume implicitamente dalla previsione del comma 2 dell’art. 42-bis nella parte in cui consente all’autorità di adottare il provvedimento durante la pendenza del giudizio avente ad oggetto l’annullamento della procedura ablatoria (ovvero nel corso del successivo eventuale giudizio di ottemperanza), ma non oltre, e quindi dopo che si sia formato un eventuale giudicato non soltanto cassatorio ma anche esplicitamente restitutorio (come meglio si dirà in prosieguo);

    g) ne consegue che la scelta che l’amministrazione è tenuta ad esprimere nell’ipotesi in cui si verifichi una delle situazioni contemplate dai primi due commi dell’art. 42-bis, non concerne l’alternativa fra l’acquisizione autoritativa e la concreta restituzione del bene, ma quella fra la sua acquisizione e la non acquisizione, in quanto la concreta restituzione rappresenta un semplice obbligo civilistico — cioè una mera conseguenza legale della decisione di non acquisire l’immobile assunta dall’amministrazione in sede procedimentale — ed essa non costituisce, né può costituire, espressione di una specifica volontà provvedimentale dell’autorità, atteso che, nell’adempiere gli obblighi di diritto comune, l’amministrazione opera alla stregua di qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento e non agisce iure auctoritatis;

    h) per concludere sul punto utilizzando un argomento esegetico caro all’analisi economica del diritto, può dirsi che la nuova disposizione, in buona sostanza, ha evitato che si riproducesse il vulnus arrecato dal superato art. 43 t.u. espr., ovvero la possibilità, accordata dalla norma all’epoca vigente, di far regredire la property rule (che dovrebbe assistere il privato titolare della risorsa), a liability rule (con facoltà della pubblica amministrazione di acquisire a propria discrezione l’altrui bene con il solo pagamento di una compensazione pecuniaria), introducendo pragmaticamente una regola di second best, da un lato, riducendo al minimo l’ambito applicativo dell’appropriazione coattiva, dall’altro, evitando che tale strumento divenga di uso routinario – causa maggiori costi, responsabilità erariale, impossibilità di far valere l’onerosità della restituzione quale giusta causa di acquisizione del bene, partecipazione rafforzata del proprietario alla scelta finale, motivazione esigente e rigorosa sulla impossibilità di configurare soluzioni diverse - configurandosi come una normale alternativa all’espropriazione ordinaria: in quest’ottica la procedura prevista dall’art. 42-bis non rappresenta più (per usare il linguaggio della Corte di Strasburgo) il punto di emersione di una defaillance structurelle dell’ordinamento italiano (rispetto a quello europeo) ma costituisce, essa stessa, espropriazione adottata secondo il canone della predicato dal paradigma europeo.

    6. IL POTERE SOSTITUTIVO DEL COMMISSARIO AD ACTA E L’ADOZIONE DEL PROVVEDIMENTO EX ART. 42 –BIS T.U. ESPR.

    6.1. La possibilità di emanazione del provvedimento ex art. 42-bis in sede di ottemperanza, da parte del giudice amministrativo o per esso dal commissario ad acta, non può essere predicata a priori e in astratto ma, al contrario, come bene testimonia il caso di specie, postula una risposta articolata che prenda necessariamente le mosse dal contesto processuale in cui è chiamato ad operare il giudice (ed il suo ausiliario) e lo conformi ai principi dianzi illustrati (in particolare al § 5.4.).

    6.2. Si è visto in precedenza (retro § 5.4., lett. f), che l’effetto inibente (all’emanazione del provvedimento di acquisizione) del giudicato restitutorio costituisce elemento essenziale dell’istituto disciplinato dall’art. 42-bisnella lettura costituzionalmente orientata che ne ha fatto il giudice delle leggi in armonia con la CEDU: conseguentemente in presenza di un giudicato restitutorio il provvedimento di acquisizione non può essere emanato.

    Si pone il problema della individuazione del giudicato restitutorio: nulla quaestio nel caso in cui il giudicato (amministrativo o civile) disponga espressamente, sic et simpliciter, la restituzione del bene, con l’unica precisazione che una tale statuizione restitutoria potrebbe sopravvenire anche nel corso del giudizio di ottemperanza. Si tratta di una conseguenza fisiologica della naturale portata ripristinatoria e restitutoria del giudicato di annullamento di provvedimenti lesivi di interessi oppositivi d’indole espropriativa (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 29 aprile 2005, n. 2; Ad. plen., 4 dicembre 1998, n. 8; Ad. plen., 22 dicembre 1982, n. 19).

    In tutti questi casi è certo che l’Amministrazione non potrà emanare il provvedimento ex art. 42-bis.

    6.3. Tuttavia, costituisce fatto notorio che, sovente, durante la pendenza del processo avente ad oggetto la procedura espropriativa, il fondo subisce alterazioni tali da rendere necessario il compimento, ai fini della sua restituzione, di rilevanti attività giuridiche o materiali; a fronte di una situazione di tal fatta si possono verificare le seguenti evenienze:

    I) il privato potrebbe non avere un interesse reale ed attuale alla tutela reipersecutoria – preferendo evitare di essere coinvolto in attività spesso defatiganti - e dunque non propone una rituale domanda di condanna dell’Amministrazione alla restituzione previa riduzione in pristino, secondo quanto previsto dal combinato disposto degli artt. 30, co. 1, e 34, co. 1, lett. c) ed e), c.p.a.; in questo caso il giudicato si presenterebbe come puramente cassatorio, per scelta (e a tutela) del proprietario, ma non si produrrebbe l’effetto inibitorio dell’emanazione del provvedimento ex art. 42-bis;

    II) il proprietario ha interesse alla restituzione e propone la relativa domanda ma il giudice non si pronuncia o si pronuncia in modo insoddisfacente; in tal caso il rimedio è affidato ai normali strumenti di reazione processuale, in mancanza (o all’esito) dei quali se il giudicato continua a non recare la statuizione restitutoria, comunque l’Amministrazione potrà emanare il provvedimento ex art. 42-bis non sussistendo la preclusione inibente dianzi richiamata.

    6.4. A diverse conclusioni deve giungersi allorquando, come verificatosi nella vicenda in trattazione, il giudicato rechi, in via esclusiva o alternativa, la previsione puntuale dell’obbligo dell’Amministrazione di emanare un provvedimento ex art. 42-bis.

    In realtà è bene precisare subito che non esiste la possibilità, tranne si versi in una situazione processuale patologica, che il giudice condanni direttamente in sede di cognizione l’Amministrazione a emanare tout court il provvedimento in questione: vi si oppongono, da un lato, il principio fondamentale di separazione dei poteri (e della riserva di amministrazione) su cui è costruito il sistema costituzionale della Giustizia Amministrativa, dall’altro, uno dei suoi più importanti corollari processuali consistente nella tassatività ed eccezionalità dei casi di giurisdizione di merito sanciti dall’art. 134 c.p.a. fra i quali non si rinviene tale tipologia di contenzioso (cfr. negli esatti termini Cons. Stato, Ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5).

    A maggior ragione in una fattispecie in cui vengono in rilievo sofisticate valutazioni sulla ricorrenza delle circostanze eccezionali che giustificano l’acquisizione coattiva, cui si possono eventualmente riconnettere gravi ricadute in termini di responsabilità erariale.

    Se del caso, dovrà essere cura delle parti evitare che si formi un giudicato di tal fatta su domande il cui petitum ha proprio ad oggetto l’emanazione di un provvedimento ex art. 42–bis, attraverso la proposizione di specifiche eccezioni (o mezzi di impugnazione all’esito della sentenza di primo grado).

    6.5. Come si è testé rilevato è ben possibile, invece, che il giudice amministrativo, adito in sede di cognizione ordinaria ovvero nell’ambito del c.d. rito silenzio, a chiusura del sistema, imponga all’amministrazione di decidere - ad esito libero, ma una volta e per sempre, nell’ovvio rispetto di tutte le garanzie sostanziali e procedurali dianzi illustrate - se intraprendere la via dell’acquisizione ex art. 42-bis ovvero abbandonarla in favore delle altre soluzioni individuate in precedenza (retro § 5.3.).

    In questo caso non vi è ragione di discostarsi dai principi recentemente enucleati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio (cfr. sentenza 15 gennaio 2013, n. 2) in sintonia con la Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. sentenza 18 novembre 2004, Zazanis), alla stregua dei quali l’effettività delle tutela giurisdizionale e il carattere poliforme del giudicato amministrativo, impongono di darvi esecuzione secondo buona fede e senza che sia frustrata la legittima aspettativa del privato alla definizione stabile del contenzioso e del contesto procedimentale: in tali casi, la totale inerzia dell’autorità o l’attività elusiva di carattere soprassessorio posta in essere da quest’ultima, consentiranno al giudice adito in sede di ottemperanza di intervenire, secondo lo schema disegnato dagli artt. 112 e ss. c.p.a., direttamente o (più normalmente) di nominare un commissario ad acta che procederà, nel rispetto delle prescrizioni e dei limiti dianzi illustrati, a valutare se esistono le eccezionali condizioni legittimanti l’acquisizione coattiva del bene ex art. 42-bis.

    7. L’Adunanza plenaria restituisce gli atti alla IV Sezione del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, commi 1, ultimo periodo, e 4, c.p.a., affinché si pronunci sull’appello in esame nel rispetto del seguente principio di diritto:<

    a) se nominato dal giudice amministrativo a mente degli artt. 34, comma 1, lett. e), e 114, comma, 4, lett. d), c.p.a., qualora tale adempimento sia stato previsto dal giudicato de quo agitur;

    b) se nominato dal giudice amministrativo a mente dell’art. 117, comma 3, c.p.a., qualora l’amministrazione non abbia provveduto sull’istanza dell’interessato che abbia sollecitato l’esercizio del potere di cui al menzionato art. 42-bis>>.

    P.Q.M.

    Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto:

    a) formula i principi di diritto di cui in motivazione;

    b) restituisce gli atti alla IV Sezione del Consiglio di Stato per ogni ulteriore statuizione, in rito, nel merito nonché sulle spese del giudizio.

    Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

    Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 ottobre 2015 con l'intervento dei magistrati:

    Riccardo Virgilio, Presidente

    Pier Giorgio Lignani, Presidente

    Stefano Baccarini, Presidente

    Paolo Numerico, Presidente

    Luigi Maruotti, Presidente

    Vito Poli, Consigliere, Estensore

    Francesco Caringella, Consigliere

    Maurizio Meschino, Consigliere

    Carlo Deodato, Consigliere

    Nicola Russo, Consigliere

    Salvatore Cacace, Consigliere

    Roberto Giovagnoli, Consigliere

    Raffaele Greco, Consigliere

     




    IL PRESIDENTE

    L'ESTENSORE

    IL SEGRETARIO

    DEPOSITATA IN SEGRETERIA

    Il 09/02/2016

    (Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

    Il Dirigente della Sezione

     

     

    N. 00002/2016REG.PROV.COLL.

    N. 00023/2014 REG.RIC.A.P.

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    REPUBBLICA ITALIANA

    IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

    Il Consiglio di Stato

    in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)

    ha pronunciato la presente

    SENTENZA

    sul ricorso numero di registro generale 23 di A.P. del 2014, proposto dalla Signora C.M., rappresentata e difesa dall'avvocato Carlo Caniglia, domiciliata ai sensi dell’art. 25 c.p.a. presso la Segreteria della Quarta Sezione del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro n. 13;

    contro

    Comune di Villa Castelli, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Giovanni Pomarico, domiciliato ai sensi dell’art. 25 c.p.a. presso la Segreteria della Quarta Sezione del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro n. 13;

    per la riforma

    della sentenza del T.a.r. per la Puglia – sede staccata di Lecce - Sezione I, n. 383 del 21 febbraio 2013.



    Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

    Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Villa Castelli;

    Vista l’ordinanza della Quarta Sezione del Consiglio di Stato – n. 3347 del 3 luglio 2014 – che ha rimesso la presente causa all’Adunanza plenaria ai sensi dell’art. 99, co.1, c.p.a.;

    Vista l’ordinanza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato - n. 28 del 15 ottobre 2014 - che ha sospeso il presente giudizio essendo pendente la questione di legittimità costituzionale della norma sancita dall’art. 42 bis, d.P.R. 8 giugno 2011, n. 327 – Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità -;

    Vista la sentenza della Corte costituzionale n. 71 del 30 marzo 2015 pubblicata nella G.U., 1° s.s., 6 maggio 2015 n. 18;

    Vista l’istanza di fissazione d’udienza e contestuale atto di riassunzione depositato dalla difesa della Signora C.M. in data 1 giugno 2015;

    Vista la memoria difensiva depositata davanti all’Adunanza plenaria dalla difesa della Signora C.M. in data 14 settembre 2015;

    Visti tutti gli atti della causa;

    Relatore nella camera di consiglio del giorno 7 ottobre 2015 il consigliere Vito Poli e uditi per le parti gli avvocati Caniglia, e Pomarico;

    Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.



    FATTO e DIRITTO

    1. L’ OGGETTO DEL PRESENTE GIUDIZIO.

    1.1. L’oggetto del presente giudizio è costituito dal provvedimento reso dal commissario ad acta - nominato in sede di esecuzione di un giudicato - recante, nella sostanza, l’emanazione di un decreto di acquisizione ex art. 42-bis d.P.R. 8 giugno 2011, n. 327 - Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – (in prosieguo t.u. espr.), in danno della odierna ricorrente.

    1.2. Più in dettaglio viene in rilievo la domanda di esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza irrevocabile del T.a.r. per la Puglia - sede staccata di Lecce, Sezione I, n. 3342 del 19 novembre 2008 che, in accoglimento del ricorso proposto dalla Signora C.M.:

    a) ha preso atto della irreversibile trasformazione di un appezzamento di terreno (di proprietà dell’istante) in giardino pubblico ad opera del comune di Villa Castelli che, sebbene avesse disposto l’occupazione d’urgenza dell’area, non aveva emanato il successivo decreto di esproprio;

    b) ha condannato il comune a restituire l’area, ovvero a concludere un accordo transattivo, o, in alternativa, ad emanare un provvedimento di acquisizione ai sensi dell’allora vigente art. 43, t.u. espr.;

    c) ha scandito dettagliatamente la tempistica di ciascuna fase ed i relativi adempimenti, formulando minute prescrizioni anche in ordine ai criteri di liquidazione, per equivalente monetario, del danno derivante dalla perdita della proprietà e del possesso sine titulo, oltre che degli accessori;

    d) ha espressamente stabilito che, trascorsi i termini concessi per ciascuno degli alternativi adempimenti, la parte privata avrebbe potuto agire in giudizio per l’esecuzione della decisione;

    e) ha condannato il comune alla refusione delle spese di lite.

    2. IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO.

    2.1. Con una prima sentenza irrevocabile resa in esecuzione del giudicato de quo agitur– T.a.r. Lecce, Sezione I, n. 2241 del 2 ottobre 2009 -:

    a) è stata assodata la sostanziale inerzia del comune ad eseguire il giudicato;

    b) è stato ordinato all’ente di dare corso a tutti gli adempimenti previsti dal giudicato entro un breve termine (45 giorni);

    c) è stata disposta la condanna dell’ente alle spese di lite.

    2.2. Con una seconda sentenza irrevocabile resa sempre in esecuzione del giudicato – T.a.r Lecce, Sezione I, n. 928 del 24 maggio 2012 -:

    a) è stato ritenuto applicabile in luogo dell’art. 43, l’art. 42-bis t.u. espr.;

    b) si è preso atto che il comune non ha inteso concludere un accordo transattivo;

    c) sono state rinnovate le statuizioni alternative, relative alla restituzione del terreno ovvero all’emanazione di un provvedimento ex art. 42-bis, accompagnate dalle consequenziali misure risarcitorie;

    d) è stato concesso un ulteriore termine di 60 giorni;

    e) è stato nominato il commissario ad acta con il mandato di provvedere a tutti gli adempimenti occorrenti per l’ottemperanza;

    f) è stata disposta l’ennesima condanna dell’ente alle spese di lite.

    2.3. Nella perdurante inerzia del comune, il commissario ad acta ha emanato, in data 10 settembre 2012, un provvedimento ex art. 43 t.u. espr. determinando il valore del bene ed il risarcimento del danno.

    2.4. Il provvedimento commissariale è stato reclamato dalla Signora Marraffa, ex art. 114, co. 6, c.p.a., sotto molteplici aspetti (cfr. atto notificato in data 4 dicembre 2012).

    2.5. Il reclamo è stato respinto dall’impugnata sentenza del T.a.r. di Lecce, Sez. I, n. 383 del 21 febbraio 2013 che, previa riqualificazione del provvedimento ex art. 42-bis cit.:

    a) ha escluso che il commissario dovesse agire nel contraddittorio delle parti, acquisendo il contributo istruttorio delle medesime;

    b) ha riconosciuto congrua la determinazione del valore del terreno in relazione alla sua inedificabilità;

    c) ha escluso che la stima dell’Agenzia del territorio, posta a base del provvedimento commissariale, fosse stata in precedenza ritenuta incongrua o inutilizzabile dal medesimo T.a.r.

    3. IL GIUDIZIO DI APPELLO DAVANTI ALLA IV SEZIONE DEL CONSIGLIO DI STATO.

    3.1. Con ricorso ritualmente notificato e depositato la Signora Marraffa ha interposto appello avverso la su menzionata sentenza articolando due autonomi motivi:

    a) con il primo (pagine 7 – 9 del gravame), ha contestato che il commissario fosse esonerato dall’obbligo di acquisire i pareri delle parti che sarebbero stati, viceversa, rilevanti e decisivi in punto di scelta fra restituzione del bene o acquisizione coattiva;

    b) con il secondo (pagine 9 – 10 del gravame), ha ribadito che il commissario, per individuare il valore del bene, non avrebbe dovuto basarsi sulla stima dell’Agenzia del territorio perché tale valutazione era stata considerata inappropriata dallo stesso T.a.r. nella sentenza n. 2241 del 2009; da qui la violazione del mandato conferito all’ausiliario dalla sentenza n. 928 del 2012 e l’invalidità, in parte qua, del provvedimento reclamato.

    3.2. Si è costituito il comune confutando analiticamente la fondatezza dell’appello di cui ha chiesto il rigetto.

    4. L’ORDINANZA DI RIMESSIONE DELLA CAUSA ALL’ADUNANZA PLENARIA ED I SUCCESSIVI SVILUPPI PROCESSUALI.

    4.1. Con ordinanza n. 3347 del 3 luglio 2014, la IV Sezione del Consiglio di Stato:

    a) ha ricostruito, in chiave storica e sistematica, l’istituto dell’acquisizione disciplinato prima dall’art. 43 e poi dall’art. 42-bis; t.u. espr.;

    b) ha dato atto del contrasto registratosi nella giurisprudenza del Consiglio di Stato circa la possibilità che in sede di esecuzione del giudicato il giudice amministrativo, direttamente o per il tramite dell’intervento del commissario ad acta, possa o meno ordinare alla P.A. di adottare un provvedimento ex art. 42-bis, ovvero limitarsi a sollecitare l’esercizio di tale potere, fissando all’uopo un termine, scaduto il quale non rimarrebbe che assicurare la sola tutela restitutoria;

    c) ha rilevato la pendenza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis t.u. espr. sollevata dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. ordinanze 13 gennaio 2014, nn. 441 e 442);

    d) all’esplicito scopo di meglio garantire l’armonico coordinamento (ed il rispetto) dei principi della effettività della tutela giurisdizionale, da un lato, e dell’autorità del giudicato, dall’altro, ha sottoposto all’Adunanza planaria la seguente questione ovvero .

    4.2. Con ordinanza dell’Adunanza plenaria - n. 28 del 15 ottobre 2014 – è stato sospeso il presente giudizio in attesa della definizione delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.

    4.3. Con sentenza parzialmente interpretativa di rigetto n. 71 del 30 marzo 2015 - pubblicata nella G.U., 1° s.s., 6 maggio 2015 n. 18 – la Corte costituzionale, in relazione ai vari parametri evocati, ha dichiarato in parte inammissibile, in parte infondata, ed in parte non fondata ai sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale del più volte menzionato art. 42-bis.

    4.4. Il giudizio è stato ritualmente proseguito con l’istanza depositata in data 1 giugno 2015 dalla difesa della signora Marraffa ed alla camera di consiglio dell’8 ottobre 2015 la causa è stata trattenuta in decisione.

    5. LA NATURA GIURIDICA, I PRESUPPOSTI APPLICATIVI E GLI EFFETTI DELLA ACQUISIZIONE EX ART. 42-BIS T.U. ESPR.

    5.1. Si riporta per comodità di lettura il più volte menzionato art. 42 - bis, t.u. espr. - Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico – come introdotto dall’art. 34, comma 1, d.l. n. 98 del 2011 convertito con modificazioni nella l. n. 111 del 2011: <<1. Valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene.

    2. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l'annullamento degli atti di cui al primo periodo del presente comma, se l'amministrazione che ha adottato l'atto impugnato lo ritira. In tali casi, le somme eventualmente già erogate al proprietario a titolo di indennizzo, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo.

    3. Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma 1 è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7. Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l'interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma.

    4. Il provvedimento di acquisizione, recante l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, è specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l'emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione; nell'atto è liquidato l'indennizzo di cui al comma 1 e ne è disposto il pagamento entro il termine di trenta giorni. L'atto è notificato al proprietario e comporta il passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ai sensi del comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell'articolo 20, comma 14; è soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell'amministrazione procedente ed è trasmesso in copia all'ufficio istituito ai sensi dell'articolo 14, comma 2.

    5. Se le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 4 sono applicate quando un terreno sia stato utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata o convenzionata, ovvero quando si tratta di terreno destinato a essere attribuito per finalità di interesse pubblico in uso speciale a soggetti privati, il provvedimento è di competenza dell'autorità che ha occupato il terreno e la liquidazione forfetaria dell'indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale è pari al venti per cento del valore venale del bene.

    6. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale; in tal caso l'autorità amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari, può procedere all'eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia.

    7. L'autorità che emana il provvedimento di acquisizione di cui al presente articolo nè dà comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti mediante trasmissione di copia integrale.

    8. Le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo.>>

    5.2. Prima di procedere alla risoluzione del quesito sottoposto all’Adunanza plenaria, è indispensabile ricostruire (limitandosi a quanto di interesse) il quadro dei condivisibili principi che, successivamente all’ordinanza di rimessione della IV Sezione, sono stati elaborati dalla Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 71 del 2015 cit.), dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. decisioni n. 735 del 19 gennaio 2015 e n. 22096 del 29 ottobre 2015) e dal Consiglio di Stato (cfr. sentenze Sez. IV, n. 4777 del 19 ottobre 2015; n. 4403 del 21 settembre 2015; n. 3988 del 26 agosto 2015; n. 2126 del 27 aprile 2015; n. 3346 del 3 luglio 2014), all’interno della consolidata cornice di tutele delineata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per contrastare il deprecato fenomeno delle del diritto di proprietà o di altri diritti reali (cfr., ex plurimis e da ultimo, con riferimento all’ordinamento italiano, Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, 3 giugno 2014, Rossi e Variale; Sez. II, 14 gennaio 2014, Pascucci; Sez. II, 5 giugno 2012, Immobiliare Cerro; Grande Camera, 22 dicembre 2009, Guiso; Sez. II, 6 marzo 2007, Scordino; Sez. III, 12 gennaio 2006, Sciarrotta; Sez. II, 17 maggio 2005, Scordino; Sez. II, 30 maggio 2000, Soc. Belvedere alberghiera; Sez. II, 30 maggio 2000, Carbonara e Ventura).

    5.3. In linea generale, quale che sia la sua forma di manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione acquisitiva), la condotta illecita dell’amministrazione incidente sul diritto di proprietà non può comportare l’acquisizione del fondo e configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c. – con la conseguente decorrenza del termine di prescrizione quinquennale dalla proposizione della domanda basata sull’occupazionecontra ius, ovvero, dalle singole annualità per quella basata sul mancato godimento del bene - che viene a cessare solo in conseguenza:

    a) della restituzione del fondo;

    b) di un accordo transattivo;

    c) della rinunzia abdicativa (e non traslativa, secondo una certa prospettazione delle SS.UU.) da parte del proprietario implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo;

    d) di una compiuta usucapione, ma solo nei ristretti limiti perspicuamente individuati dal Consiglio di Stato allo scopo di evitare che sotto mentite spoglie (i.e. alleviare gli oneri finanziari altrimenti gravanti sull’Amministrazione responsabile), si reintroduca una forma surrettizia di espropriazione indiretta in violazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale della Cedu (Sez. IV, n. 3988 del 2015 e n. 3346 del 2014); dunque a condizione che:

    I) sia effettivamente configurabile il carattere non violento della condotta;

    II) si possa individuare il momento esatto della interversio possesionis;

    III) si faccia decorrere la prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore del t.u. espr. (30 giugno 2003) perché solo l’art. 43 del medesimo t.u. aveva sancito il superamento dell’istituto dell’occupazione acquisitiva e dunque solo da questo momento potrebbe ritenersi individuato, ex art. 2935 c.c., il ;

    e) di un provvedimento emanato ex art. 42-bis t.u. espr.

    5.4. Chiarito che l’acquisizione ex art. 42-bis cit. costituisce una delle possibili cause legali di estinzione di un fatto illecito e che essa trova legittima applicazione anche alle situazioni prodottesi prima della sua entrata in vigore (§ 6.9.1. della sentenza della Corte cost. n. 71 del 2015 cit., che ha così definitivamente fugato i dubbi adombrati dalle Sezioni unite al § 4 della sentenza n. 735 del 2015 cit.), giova evidenziare che:

    a) la disposizione introduce una norma di natura eccezionale; tale conclusione è coerente con l’impostazione tradizionale che considera a tale stregua le norme limitatrici della sfera giuridica dei destinatari, con particolare riguardo a quelle che attribuiscono alla P.A. un potere ablatorio.

    Un atto definibile come espropriazione in sanatoria stricto sensu, e basato sulla illiceità dell’occupazione di un bene altrui, infatti, segnerebbe una interruzione della consequenzialità logica della disciplina generale (europea e nazionale) di riferimento in materia di acquisizione coattiva della proprietà privata, ponendosi in contrasto con essa attraverso una discriminazione – pure sancita dalla legge - del trattamento giuridico di situazioni soggettive che altrimenti sarebbero destinatarie della disciplina generale; da qui l’indefettibile necessità, ex art. 14, disp. prel. c.c., di una esegesi rigorosa della norma medesima che sia, ad un tempo, conforme al sistema di tutela della proprietà privata disegnato dalla CEDU ma rispettosa del valore costituzionale della funzione sociale della proprietà privata sancito dall’art. 42, co. 2, Cost. (che costituisce il fondamento del potere attribuito alla P.A.), secondo un approccio metodologico basato su una visione sistemica, multilivello e comparata della tutela dei diritti, a sua volta incentrata sulla considerazione dell’ordinamento nel suo complesso, quale risultante dalla interazione fra norme (interne e internazionali) e principi delle Corti (interne e sovranazionali);

    b) l’art. 42-bis, invece, configura un procedimento ablatorio sui generis, caratterizzato da una precisa base legale, semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc), il cui scopo non è (e non può essere) quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato dall’Amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì quello autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius, consistente nella soddisfazione di imperiose esigenze pubbliche, redimibili esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione di qualsiasi opera dell’infrastruttura realizzata sine titulo;

    c) un tale obbiettivo istituzionale, inoltre, deve emergere necessariamente da un percorso motivazionale - rafforzato, stringente e assistito da garanzie partecipativo rigorose – basato sull’emersione di ragioni attuali ed eccezionali che dimostrino in modo chiaro che l’apprensione coattiva si pone come extrema ratio (perché non sono ragionevolmente praticabili soluzioni alternative e che tale assenza di alternative non può mai consistere nella generica  ), per la tutela di siffatte imperiose esigenze pubbliche;

    d) sono coerenti con questa impostazione:

    I) le importanti guarentigie previste per il destinatario dell’atto di acquisizione sotto il profilo della misura dell’indennizzo (avente natura indennitaria secondo Cass. civ., Sez. un., n. 2209 del 2015 cit.), valutato a valore venale (al momento del trasferimento, alla stregua del criterio della taxatio rei, senza che, dunque, ci siano somme da rivalutare ma, in ogni caso, tenuto conto degli ulteriori parametri individuati dagli artt. 33 e 40 t.u.espr.), maggiorato della componente non patrimoniale (dieci per cento senza onere probatorio per l’espropriato), e con salvezza della possibilità, per il proprietario, di provare autonome poste di danno;

    II) la previsione del coinvolgimento obbligatorio della Corte dei conti in una vicenda che produce oggettivamente (e indipendentemente dagli eventuali profili soggettivi di responsabilità da accertarsi nelle competenti sedi) un aggravio sensibile degli esborsi a carico della finanza pubblica;

    e) per evitare che l’eccezionale potere ablatorio previsto dall’art. 42-bis possa essere esercitato sine die in violazione dei valori costituzionali ed europei di certezza e stabilità del quadro regolatorio dell’assetto dei contrapposti interessi in gioco, la disciplina ivi dettata è inserita in (ed arricchita da) un più ampio contesto ordinamentale che - in ragione della sussistenza dell’obbligo della P.A. di valutare se emanare un atto tipico sull’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto - prevede per il proprietario strumenti adeguati di reazione all’inerzia della P.A., esercitabili davanti al giudice amministrativo, sia attraverso il c.d. “rito silenzio” (artt. 34 e 117 c.p.a.), sia in sede di ordinario giudizio di legittimità avente ad oggetto il procedimento ablatorio sospettato di illegittimità (o altro giudizio avente ad oggetto la tutela reipersecutoria, come verificatosi nel caso di specie), secondo le coordinate esegetiche esplicitamente stabilite dalla sentenza n. 71 del 2015 (in particolare § 6.6.3.);

    f) assume un rilievo centrale (in particolare ai fini della risoluzione del quesito sottoposto all’Adunanza plenaria, come si vedrà meglio in prosieguo) un ulteriore elemento caratterizzante l’istituto in esame, ovvero l’impossibilità che l’Amministrazione emani il provvedimento di acquisizione in presenza di un giudicato che abbia disposto la restituzione del bene al proprietario; tale elemento – valorizzato dalla sentenza n. 71 del 2015 in coerenza coi principi elaborati dalla Corte di Strasburgo - si desume implicitamente dalla previsione del comma 2 dell’art. 42-bis nella parte in cui consente all’autorità di adottare il provvedimento durante la pendenza del giudizio avente ad oggetto l’annullamento della procedura ablatoria (ovvero nel corso del successivo eventuale giudizio di ottemperanza), ma non oltre, e quindi dopo che si sia formato un eventuale giudicato non soltanto cassatorio ma anche esplicitamente restitutorio (come meglio si dirà in prosieguo);

    g) ne consegue che la scelta che l’amministrazione è tenuta ad esprimere nell’ipotesi in cui si verifichi una delle situazioni contemplate dai primi due commi dell’art. 42-bis, non concerne l’alternativa fra l’acquisizione autoritativa e la concreta restituzione del bene, ma quella fra la sua acquisizione e la non acquisizione, in quanto la concreta restituzione rappresenta un semplice obbligo civilistico — cioè una mera conseguenza legale della decisione di non acquisire l’immobile assunta dall’amministrazione in sede procedimentale — ed essa non costituisce, né può costituire, espressione di una specifica volontà provvedimentale dell’autorità, atteso che, nell’adempiere gli obblighi di diritto comune, l’amministrazione opera alla stregua di qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento e non agisce iure auctoritatis;

    h) per concludere sul punto utilizzando un argomento esegetico caro all’analisi economica del diritto, può dirsi che la nuova disposizione, in buona sostanza, ha evitato che si riproducesse il vulnus arrecato dal superato art. 43 t.u. espr., ovvero la possibilità, accordata dalla norma all’epoca vigente, di far regredire la property rule (che dovrebbe assistere il privato titolare della risorsa), a liability rule (con facoltà della pubblica amministrazione di acquisire a propria discrezione l’altrui bene con il solo pagamento di una compensazione pecuniaria), introducendo pragmaticamente una regola di second best, da un lato, riducendo al minimo l’ambito applicativo dell’appropriazione coattiva, dall’altro, evitando che tale strumento divenga di uso routinario – causa maggiori costi, responsabilità erariale, impossibilità di far valere l’onerosità della restituzione quale giusta causa di acquisizione del bene, partecipazione rafforzata del proprietario alla scelta finale, motivazione esigente e rigorosa sulla impossibilità di configurare soluzioni diverse - configurandosi come una normale alternativa all’espropriazione ordinaria: in quest’ottica la procedura prevista dall’art. 42-bis non rappresenta più (per usare il linguaggio della Corte di Strasburgo) il punto di emersione di una defaillance structurelle dell’ordinamento italiano (rispetto a quello europeo) ma costituisce, essa stessa, espropriazione adottata secondo il canone della predicato dal paradigma europeo.

    6. IL POTERE SOSTITUTIVO DEL COMMISSARIO AD ACTA E L’ADOZIONE DEL PROVVEDIMENTO EX ART. 42 –BIS T.U. ESPR.

    6.1. La possibilità di emanazione del provvedimento ex art. 42-bis in sede di ottemperanza, da parte del giudice amministrativo o per esso dal commissario ad acta, non può essere predicata a priori e in astratto ma, al contrario, come bene testimonia il caso di specie, postula una risposta articolata che prenda necessariamente le mosse dal contesto processuale in cui è chiamato ad operare il giudice (ed il suo ausiliario) e lo conformi ai principi dianzi illustrati (in particolare al § 5.4.).

    6.2. Si è visto in precedenza (retro § 5.4., lett. f), che l’effetto inibente (all’emanazione del provvedimento di acquisizione) del giudicato restitutorio costituisce elemento essenziale dell’istituto disciplinato dall’art. 42-bisnella lettura costituzionalmente orientata che ne ha fatto il giudice delle leggi in armonia con la CEDU: conseguentemente in presenza di un giudicato restitutorio il provvedimento di acquisizione non può essere emanato.

    Si pone il problema della individuazione del giudicato restitutorio: nulla quaestio nel caso in cui il giudicato (amministrativo o civile) disponga espressamente, sic et simpliciter, la restituzione del bene, con l’unica precisazione che una tale statuizione restitutoria potrebbe sopravvenire anche nel corso del giudizio di ottemperanza. Si tratta di una conseguenza fisiologica della naturale portata ripristinatoria e restitutoria del giudicato di annullamento di provvedimenti lesivi di interessi oppositivi d’indole espropriativa (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 29 aprile 2005, n. 2; Ad. plen., 4 dicembre 1998, n. 8; Ad. plen., 22 dicembre 1982, n. 19).

    In tutti questi casi è certo che l’Amministrazione non potrà emanare il provvedimento ex art. 42-bis.

    6.3. Tuttavia, costituisce fatto notorio che, sovente, durante la pendenza del processo avente ad oggetto la procedura espropriativa, il fondo subisce alterazioni tali da rendere necessario il compimento, ai fini della sua restituzione, di rilevanti attività giuridiche o materiali; a fronte di una situazione di tal fatta si possono verificare le seguenti evenienze:

    I) il privato potrebbe non avere un interesse reale ed attuale alla tutela reipersecutoria – preferendo evitare di essere coinvolto in attività spesso defatiganti - e dunque non propone una rituale domanda di condanna dell’Amministrazione alla restituzione previa riduzione in pristino, secondo quanto previsto dal combinato disposto degli artt. 30, co. 1, e 34, co. 1, lett. c) ed e), c.p.a.; in questo caso il giudicato si presenterebbe come puramente cassatorio, per scelta (e a tutela) del proprietario, ma non si produrrebbe l’effetto inibitorio dell’emanazione del provvedimento ex art. 42-bis;

    II) il proprietario ha interesse alla restituzione e propone la relativa domanda ma il giudice non si pronuncia o si pronuncia in modo insoddisfacente; in tal caso il rimedio è affidato ai normali strumenti di reazione processuale, in mancanza (o all’esito) dei quali se il giudicato continua a non recare la statuizione restitutoria, comunque l’Amministrazione potrà emanare il provvedimento ex art. 42-bis non sussistendo la preclusione inibente dianzi richiamata.

    6.4. A diverse conclusioni deve giungersi allorquando, come verificatosi nella vicenda in trattazione, il giudicato rechi, in via esclusiva o alternativa, la previsione puntuale dell’obbligo dell’Amministrazione di emanare un provvedimento ex art. 42-bis.

    In realtà è bene precisare subito che non esiste la possibilità, tranne si versi in una situazione processuale patologica, che il giudice condanni direttamente in sede di cognizione l’Amministrazione a emanare tout court il provvedimento in questione: vi si oppongono, da un lato, il principio fondamentale di separazione dei poteri (e della riserva di amministrazione) su cui è costruito il sistema costituzionale della Giustizia Amministrativa, dall’altro, uno dei suoi più importanti corollari processuali consistente nella tassatività ed eccezionalità dei casi di giurisdizione di merito sanciti dall’art. 134 c.p.a. fra i quali non si rinviene tale tipologia di contenzioso (cfr. negli esatti termini Cons. Stato, Ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5).

    A maggior ragione in una fattispecie in cui vengono in rilievo sofisticate valutazioni sulla ricorrenza delle circostanze eccezionali che giustificano l’acquisizione coattiva, cui si possono eventualmente riconnettere gravi ricadute in termini di responsabilità erariale.

    Se del caso, dovrà essere cura delle parti evitare che si formi un giudicato di tal fatta su domande il cui petitum ha proprio ad oggetto l’emanazione di un provvedimento ex art. 42–bis, attraverso la proposizione di specifiche eccezioni (o mezzi di impugnazione all’esito della sentenza di primo grado).

    6.5. Come si è testé rilevato è ben possibile, invece, che il giudice amministrativo, adito in sede di cognizione ordinaria ovvero nell’ambito del c.d. rito silenzio, a chiusura del sistema, imponga all’amministrazione di decidere - ad esito libero, ma una volta e per sempre, nell’ovvio rispetto di tutte le garanzie sostanziali e procedurali dianzi illustrate - se intraprendere la via dell’acquisizione ex art. 42-bis ovvero abbandonarla in favore delle altre soluzioni individuate in precedenza (retro § 5.3.).

    In questo caso non vi è ragione di discostarsi dai principi recentemente enucleati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio (cfr. sentenza 15 gennaio 2013, n. 2) in sintonia con la Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. sentenza 18 novembre 2004, Zazanis), alla stregua dei quali l’effettività delle tutela giurisdizionale e il carattere poliforme del giudicato amministrativo, impongono di darvi esecuzione secondo buona fede e senza che sia frustrata la legittima aspettativa del privato alla definizione stabile del contenzioso e del contesto procedimentale: in tali casi, la totale inerzia dell’autorità o l’attività elusiva di carattere soprassessorio posta in essere da quest’ultima, consentiranno al giudice adito in sede di ottemperanza di intervenire, secondo lo schema disegnato dagli artt. 112 e ss. c.p.a., direttamente o (più normalmente) di nominare un commissario ad acta che procederà, nel rispetto delle prescrizioni e dei limiti dianzi illustrati, a valutare se esistono le eccezionali condizioni legittimanti l’acquisizione coattiva del bene ex art. 42-bis.

    7. L’Adunanza plenaria restituisce gli atti alla IV Sezione del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, commi 1, ultimo periodo, e 4, c.p.a., affinché si pronunci sull’appello in esame nel rispetto del seguente principio di diritto:<

    a) se nominato dal giudice amministrativo a mente degli artt. 34, comma 1, lett. e), e 114, comma, 4, lett. d), c.p.a., qualora tale adempimento sia stato previsto dal giudicato de quo agitur;

    b) se nominato dal giudice amministrativo a mente dell’art. 117, comma 3, c.p.a., qualora l’amministrazione non abbia provveduto sull’istanza dell’interessato che abbia sollecitato l’esercizio del potere di cui al menzionato art. 42-bis>>.

    P.Q.M.

    Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto:

    a) formula i principi di diritto di cui in motivazione;

    b) restituisce gli atti alla IV Sezione del Consiglio di Stato per ogni ulteriore statuizione, in rito, nel merito nonché sulle spese del giudizio.

    Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

    Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 ottobre 2015 con l'intervento dei magistrati:

    Riccardo Virgilio, Presidente

    Pier Giorgio Lignani, Presidente

    Stefano Baccarini, Presidente

    Paolo Numerico, Presidente

    Luigi Maruotti, Presidente

    Vito Poli, Consigliere, Estensore

    Francesco Caringella, Consigliere

    Maurizio Meschino, Consigliere

    Carlo Deodato, Consigliere

    Nicola Russo, Consigliere

    Salvatore Cacace, Consigliere

    Roberto Giovagnoli, Consigliere

    Raffaele Greco, Consigliere

     




    IL PRESIDENTE

    L'ESTENSORE

    IL SEGRETARIO

    DEPOSITATA IN SEGRETERIA

    Il 09/02/2016

    (Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

    Il Dirigente della Sezione

     

    Ultimo aggiornamento Sabato 23 Aprile 2016 14:11
     

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    Ultimo aggiornamento Martedì 30 Giugno 2015 16:05 Leggi tutto...
     

    Tutela dell'ambiente e misure urgenti: i limiti ci sono e come!

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    N. 1551/2012 Reg. Prov. Coll.
    N. 715 Reg. Ric.
    ANNO 2007
    REPUBBLICA ITALIANA
    IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
    Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Seconda) ha pronunciato la presente
    SENTENZA
    sul ricorso numero di registro generale 715 del 2007, proposto da: Soc. D. S.r.l., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avv. Fabio Colzi, Lorenzo Acquarone, Giovanni Acquarone, Alessandro Salustri, con domicilio eletto presso Fabio Colzi in Firenze, via San Gallo 76;
    contro
    Ministero dello sviluppo economico, Ministero della salute, Ministero dell'ambiente e tutela del territorio e del mare, Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, in persona dei rispettivi Ministri in carica, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, domiciliataria per legge;
    - Regione Toscana, in persona del Presidente p.t.;
    - Comune di Collesalvetti, in persona del Sindaco p.t.;
    - A.R.P.A.T. Azienda Reg. Protezione Ambientale della Toscana,
    - ICRAM- Istituto Centrale Ricerca Scientifica e Tecnologica, in persona del legale rappresentante p.t.;
    - Provincia di Livorno, in persona del Presidente p.t.;
    - Comune di Livorno, in persona del Sindaco p.t.;
    - Autorità Portuale di Livorno; in persona del legale rappresentante p.t.;
    nei confronti di
    Soc. S. S.p.A. in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall'avv. Luca Tufarelli, con domicilio eletto presso - Segreteria T.A.R. in Firenze, via Ricasoli 40;
    per l'annullamento
    a) dei decreti prot. nn. 3315 e 3316/qdv/di/b, adottati in data 7 febbraio 2007 dal Direttore generale per la qualità della vita del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, notificati il 16 febbraio successivo con note prot. nn. 3141/qdv/di/ix e 3149/qdv/di/ix datate 7 febbraio 2007, entrambi aventi ad oggetto "provvedimento finale di adozione, ex art. 14 ter, legge 7 agosto 1990, n. 241, delle determinazioni delle conferenze di servizi decisorie relative al sito di bonifica di interesse nazionale di Livorno", rispettivamente "del 24/03/05, 28/07/05, 22/12/05, 28/04/06" il primo, e "del 13/12/06" il secondo;
    b) di tutti gli atti, comportamenti, provvedimenti presupposti, connessi e consequenziali, ivi inclusi, in particolare, i verbali e le determinazioni assunte dalle conferenze di servizi decisorie tenutesi presso il Ministero dell'ambiente rispettivamente in data 24 marzo 2005, 28 luglio 2005, 22 dicembre 2005, 28 aprile 2006 e 13 dicembre 2006 relative al sito di interesse nazionale di Livorno, richiamate nei decreti ministeriali impugnati, nella loro interezza e con particolare riferimento alla parte in cui:
    - quanto al punto n. 11 dell'o.d.g. del verbale della conferenza del 13 dicembre 2006, è stato deliberato di "subordinare la restituzione agli usi legittimi dell'area di proprietà della società D.:
    a) alla esecuzione di indagini di caratterizzazione integrativa, condotta tenendo conto delle prescrizioni sopra elencate, i cui risultati devono essere presentati entro 30 giorni dal ricevimento del presente verbale;
    b)- all'attivazione, entro 10 giorni dalla data di ricevimento del presente verbale, di interventi di messa in sicurezza d'emergenza della falda mediante la realizzazione di una barriera idraulica di emungimento e successivo trattamento lungo tutto il fronte dello stabilimento a valle idrogeologico dell'area, con un interasse dei pozzi di emungimento in grado di impedire la diffusione della contaminazione;
    c)-alla presentazione, entro il termine di 60 giorni dal ricevimento del presente verbale, del progetto preliminare di bonifica delle acque di falda basato sul confinamento fisico delle acque medesime;
    d) in caso di ulteriore inadempienza dell'azienda, saranno attivati i poteri sostitutivi in danno del medesimo soggetto inadempiente, costituendo il presente verbale formale messa in mora" (pag. 8);
    - quanto al punto n. 3 dell'ordine del giorno della conferenza del 28 aprile 2006, di approvare il progetto preliminare di bonifica dell'area marino costiera prospiciente il sito di interesse nazionale di Livorno, presentato da ICRAM e, con riferimento agli interventi in esso previsti, di richiedere alla Direzione della qualità della vita del Ministero dell'ambiente di "segnalare l'avvio dell'esecuzione in danno ai sensi e per gli effetti degli artt. 51 bis del d.lgs. 22/97 e del comma 7 dell'art. 114 della legge 388/2000, nonché delle azioni di accertamento e di recupero del danno ambientale arrecato al mare, aggravato anche a causa della mancata esecuzione di tutti gli interventi di messa in sicurezza d'emergenza già prescritti";
    nonché per l'annullamento
    di tutti gli atti presupposti, conseguenti o comunque connessi.
    Visti il ricorso e i relativi allegati;
    Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dello sviluppo economico e di S. S.p.A.;
    Viste le memorie difensive;
    Visti tutti gli atti della causa;
    Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 giugno 2012 il dott. Bernardo Massari e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
    Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
    FATTO
    Espone la società D. s.r.l. di essere proprietaria, per acquisto eseguito nel 1998, di un'area industriale inclusa nella zona portuale di Livorno, con una superficie di mq. 13.200, a sua volta ricompresa nel sito di interesse nazionale di Livorno.
    L'area in questione, precedentemente utilizzata dalla società T. come piazzale di ricovero e transito di automezzi, asservita al proprio deposito di bitumi, viene ora esclusivamente destinata allo stoccaggio e alla movimentazione di metanolo, ad avviso della ricorrente con caratteristiche di piena conformità alla normativa in materia di sicurezza ambientale, idonee ad escludere la riconducibilità di eventuali contaminazioni delle matrici ambientali all'attività ivi svolta.
    L'area del porto di Livorno, con d.m. del 18 settembre 2001, n. 468, veniva classificata come sito di interesse nazionale, previo sommario accertamento del suo stato di inquinamento e prevedendone la bonifica con oneri interamente addossati a carico dell'amministrazione pubblica in forza del riconoscimento della situazione di contaminazione diffusa, non specificamente imputabile ad alcuno.
    Dopo la successiva perimetrazione avvenuta con d.m. 24 febbraio 2003, la società D., di propria iniziativa, commissionava ad un'impresa specializzata la predisposizione di un piano di caratterizzazione che veniva eseguita mediante l'installazione e la distribuzione sull'intera superficie del deposito di 7 sondaggi di cui 4 attrezzati a piezometri per l'analisi delle acque sotterranee.
    I risultati della caratterizzazione e le relazioni tecniche venivano trasmesse al Ministero dell'ambiente il 6 febbraio 2006, evidenziando un superamento delle soglie normative di contaminazione da idrocarburi di non rilevante entità per quanto attiene al suolo nonché, in relazione alla falda acquifera, il superamento dei valori limite dei parametri di ferro, manganese e solfati (oltre a quello, di lieve entità, concernente il nichel).
    Veniva, altresì, formulata nella relazione tecnica, l'ipotesi che il superamento del valore limite di norma relativo alle predette sostanze avesse origine naturale quale risultato di processi chimici spontanei caratteristici della composizione del terreno.
    Con le conferenze di servizi dell'8 luglio e 10 agosto 2005, preso atto della caratterizzazione dei suoli e delle acque sotterranee, poste in essere dalle varie imprese insediate sul sito in parola, si stabiliva di procedere in maniera congiunta, unitaria e coordinata, previo approfondimento delle indagini istruttorie, all'attività di messa in sicurezza di emergenza, ove ne fossero ritenuti sussistenti i presupposti. In particolare emergeva dagli atti delle suddette conferenze la necessità di effettuare uno studio idrogeologico che tenesse conto della specificità dei suoli, nonché finalizzata all'esame dell'oscillazione stagionale della falda allo scopo di comporre un quadro istruttorio sufficiente a stabilire gli interventi da eseguire.
    Nondimeno, con la conferenza di servizi decisoria del 22 dicembre 2005, il Ministero dell'ambiente, mutando il proprio orientamento, senza convocare alcuna ulteriore conferenza istruttoria sull'argomento, oltre che omettendo di comunicare ai soggetti interessati l'avvio del nuovo procedimento, deliberava di "conferire a S. spa l'incarico per la redazione dello studio di fattibilità per la messa in sicurezza d'emergenza della falda acquifera del sito di interesse nazionale di bonifica di Livorno mediante intervento coordinato" è inoltre stabiliva che "i soggetti che intendono procedere in maniera congiunta, comunicheranno la loro adesione impegnandosi ad accollarsi gli oneri conseguenti. I soggetti che intendono procedere in maniera autonoma, presenteranno entro la stessa data gli elaborati relativi agli interventi di messa in sicurezza di emergenza sulle aree di loro proprietà o in concessione", precisando che in caso di inosservanza dei termini prefissati sarebbero stati attivati poteri sostitutivi in danno del soggetto inadempiente.
    Avverso tale atto veniva presentato ricorso dalle ditte interessate e dalla ricorrente (RG n. 1476/06) contestandone la legittimità sotto diversi profili.
    Il Ministero dell'ambiente, omettendo ogni ulteriore passaggio istruttorio, nonché la partecipazione degli interessati, convocava una conferenza decisoria per il 28 aprile 2006 e, adducendo ragioni d'urgenza che non avrebbero consentito di attendere lo svolgimento dell'istruttoria commissionata a S., deliberava di richiedere, entro 30 giorni dalla data di ricevimento del verbale, a tutte le imprese interessate "di adottare immediati interventi di messa in sicurezza di emergenza della falda consistente nella realizzazione di una barriera idraulica di emungimento e successivo trattamento lungo tutto il fronte dello Stabilimento a valle idrogeologico dell'area, con interasse dei pozzi di emungimento in grado di impedire la diffusione della contaminazione".
    Si prescriveva, altresì, "di presentare entro il termine di 60 giorni dal ricevimento del presente verbale, il progetto preliminare di bonifica delle acque di falda basato sul confinamento fisico delle acque medesime".
    Veniva, infine, disposto che l'inosservanza dei termini ivi previsti da parte dei destinatari delle prescrizioni sarebbe sanzionata con l'attivazione di "poteri sostitutivi in danno del soggetto inadempiente".
    Peraltro, nella successiva conferenza decisoria del 13 dicembre 2006, l'Amministrazione procedente, in conformità con quanto asserito dall'ARPAT, ammetteva di non essere a conoscenza della reale consistenza della falda acquifera dell'area in questione, affermando la necessità che siano effettuate "indagini idrogeologiche al fine di definire i rapporti tra la falda superficiale, il canale Torretta e l'antifosso delle Acque chiare".
    Tuttavia, in contraddizione con tali premesse, il Ministero, anziché attendere i risultati di dette ulteriori indagini, deliberava di subordinare la restituzione agli usi legittimi dell'area: alla realizzazione, con minaccia di esecuzione in danno, dell'intervento di m.i.s.e. delle acque di falda, mediante barriera idraulica di emungimento a valle idrogeologico, in grado di impedire la diffusione della contaminazione, da eseguirsi entro 10 giorni; la predisposizione di un progetto preliminare di bonifica delle medesime acque di falda basata sul loro confinamento fisico.
    Con i provvedimenti indicati in epigrafe il Direttore generale per la qualità della vita del Ministero dell'ambiente recepiva le conclusioni sopra riportate adottate dalle conferenze di servizi decisorie.
    Contro tali atti proponeva ricorso la società in intestazione chiedendone l'annullamento e deducendo le seguenti censure, vinte le spese di giudizio:
    A) Sui decreti direttoriali del 7 febbraio 2007.
    1. Invalidità derivata
    2. Violazione e falsa applicazione dell'art. 4 del d.lgs. n. 165/2001. Violazione e falsa applicazione dell'art. 17 del d.lgs. n. 22/1997 e del d.m. n. 471/1999, nonché degli artt. 240 e segg. del d.lgs. n. 152/2006. Violazione e falsa applicazione degli artt. 14 e segg. l. n. 241/1990. Eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione. Incompetenza.
    B) Sull'illegittimità delle prescrizioni delle conferenze decisorie relative alla messa in sicurezza di emergenza e sulla bonifica delle acque di falda sottostanti le aree di pertinenza.
    3. Violazione e falsa applicazione dell'art. 17 del d.lgs. n. 22/1997 e del d.m. n. 471/1999. Violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e segg. 7 e segg. 14 e segg. l. n. 241/1990. Eccesso di potere per contraddittorietà, difetto di istruttoria e di motivazione, difetto dei presupposti, illogicità.
    4. Violazione e falsa applicazione dell'art. 17 del d.lgs. n. 22/1997. Violazione e falsa del d.m. n. 471/1999. Eccesso di potere per difetto dei presupposti, difetto di istruttoria e di motivazione, difetto dei presupposti, travisamento, illogicità ed ingiustizia manifesta.
    B. II) Sull'assenza dei presupposti dell'ordine di messa in sicurezza d'emergenza.
    5. Violazione e falsa applicazione, sotto altro profilo, dell'art. 17 del d.lgs. n. 22/1997 e dell'art. 9 del d.m. n. 471/1999. Eccesso di potere per difetto dei presupposti. Travisamento. Difetto di motivazione. Difetto di istruttoria. Illogicità. In giustizia. In competenza.
    B. IV) Sullo specifico ordine di messe sicurezza d'emergenza impartito.
    6. Violazione e falsa applicazione dell'art. 17 del d.lgs. n. 22/1997. e del d.m. n. 471/1999. Eccesso di potere in particolare sotto i profili della perplessità della motivazione e del dispositivo, del difetto assoluto di presupposti, della contraddittorietà, del difetto di istruttoria e di motivazione, del travisamento dei fatti, illogicità ed ingiustizia manifesta. Sviamento di potere.
    B. V) Sulla prescrizione di bonifica della falda acquifera.
    7. Violazione e falsa applicazione, sotto ulteriore profilo, dell'art. 17 del d.lgs. n. 22/1997 e del d.m. n. 471/1999. Eccesso di potere per contraddittorietà, difetto di istruttoria e di motivazione, travisamento, illogicità ed ingiustizia manifesta. Incompetenza.
    B. VI) Illegittimità sopravvenuta delle prescrizioni di m.i.s.e. e di bonifica in relazione al T.U. n. 152/2006.
    8. Violazione e falsa applicazione delle norme in materia ambientale approvate dal decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152 e, in particolare, degli artt. 240 e seguenti.
    C) Sulla deliberazione di esecuzione in danno degli interventi nelle aree marino costieri prospicienti il sito di Livorno.
    9. Violazione e falsa applicazione del d.lgs. n. 22/1997 e del d.m. n. 471/1999. Violazione dell'obbligo di clare loqui. Eccesso di potere per contraddittorietà, difetto di istruttoria e di motivazione, perplessità, travisamento, illogicità, ingiustizia.
    C. II) Sul illegittimità del procedimento.
    10. Violazione e falsa applicazione del d.lgs. n. 22/1997 e del d.m. n. 471/1999. Violazione degli artt. 3 e segg., 7 e segg., 14 e segg. l. n. 241/1990. Eccesso di potere per contraddittorietà, difetto di istruttoria e di motivazione, travisamento illogicità ed ingiustizia.
    C. III) Sulla carenza delle condizioni per l'adozione dei provvedimenti di esecuzione in danno di recupero del danno ambientale.
    11. Violazione e falsa applicazione dell'art. 17 del d.lgs. n. 22/1997 e del d.m. n. 471/1999. Violazione degli artt. 300 e segg. del d.lgs. n. 152/2006. Violazione dell'art. 18 della l. n. 349/1986. Violazione dell'art. 1, co. da 439 a 443 della l. n. 266/2005. Eccesso di potere per difetto dei presupposti legittimante, contraddittorietà, difetto di istruttoria e di motivazione, travisamento, illogicità, ingiustizia.
    C. IV) Di via subordinata. Sul progetto preliminare di m.i.s.e. e di bonifica ha provato.
    12. Violazione e falsa applicazione dell'art. 17 del d.lgs. n. 22/1997 e del d.m. n. 471/1999. Eccesso di potere per difetto di presupposti, difetto di istruttoria e di motivazione, contraddittorietà, travisamento, illogicità, ingiustizia.
    C. V) illegittimità della determinazione di "esecuzione in danno" in relazione al T.U. n. 152/2006.
    13. Violazione e falsa applicazione delle norme in materia ambientale approvate con decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 e in particolare degli artt. 240 e segg.
    Si è costituito in giudizio il Ministero dell'ambiente e tutela del territorio e del mare chiedendo la reiezione del ricorso.
    All'udienza pubblica del 19 giugno 2012 il ricorso è stato trattenuto per la decisione.
    DIRITTO
    1. Con il ricorso in esame la società D. S.r.l., contesta i decreti nn. 3315 e 3316 del 7 febbraio 2007 con cui il Direttore generale per la qualità della vita del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, ha emanato i provvedimenti finali di adozione, ex art. 14 ter, legge 7 agosto 1990, n. 241, delle determinazioni delle conferenze di servizi decisorie relative al sito di bonifica di interesse nazionale di Livorno, rispettivamente "del 24/03/05, 28/07/05, 22/12/05, 28/04/06" il primo, e "del 13/12/06" il secondo.
    Unitamente ai suddetti provvedimenti vengono impugnati tutti gli atti, presupposti, connessi e consequenziali, ivi inclusi, in particolare, i verbali e le determinazioni assunte dalle conferenze di servizi decisorie tenutesi presso il Ministero dell'ambiente rispettivamente in data 24 marzo 2005, 28 luglio 2005, 22 dicembre 2005, 28 aprile 2006 e 13 dicembre, richiamate nei decreti ministeriali impugnati.
    1.1. In particolare la ricorrente si duole delle prescrizioni dettate con gli atti in parola con cui si è stabilito di "subordinare la restituzione agli usi legittimi dell'area di proprietà della società D.:
    a) alla esecuzione di indagini di caratterizzazione integrativa, condotta tenendo conto delle prescrizioni sopra elencate, i cui risultati devono essere presentati entro 30 giorni dal ricevimento del presente verbale;
    b) - all'attivazione, entro 10 giorni dalla data di ricevimento del presente verbale, di interventi di messa in sicurezza d'emergenza della falda mediante la realizzazione di una barriera idraulica di emungimento e successivo trattamento lungo tutto il fronte dello stabilimento a valle idrogeologico dell'area, con un interasse dei pozzi di emungimento in grado di impedire la diffusione della contaminazione;
    c) - alla presentazione, entro il termine di 60 giorni dal ricevimento del presente verbale, del progetto preliminare di bonifica delle acque di falda basato sul confinamento fisico delle acque medesime;
    d) in caso di ulteriore inadempienza dell'azienda, saranno attivati i poteri sostitutivi in danno del medesimo soggetto inadempiente, costituendo il presente verbale formale messa in mora".
    1.2. Viene altresì contestato il punto n. 3 dell'ordine del giorno della conferenza del 28 aprile 2006, di approvare il progetto preliminare di bonifica dell'area marino costiera prospiciente il sito di interesse nazionale di Livorno, presentato da ICRAM e, con riferimento agli interventi in esso previsti, di richiedere alla Direzione della qualità della vita del Ministero dell'ambiente di "segnalare l'avvio dell'esecuzione in danno ai sensi e per gli effetti degli artt. 51 bis del d.lgs. 22/97 e del comma 7 dell'art. 114 della legge 388/2000, nonché delle azioni di accertamento e di recupero del danno ambientale arrecato al mare, aggravato anche a causa della mancata esecuzione di tutti gli interventi di messa in sicurezza d'emergenza già prescritti".
    2. Il ricorso è meritevole di accoglimento.
    3. Con il primo motivo la società ricorrente deduce il vizio di incompetenza dell'organo emanante, per essere stato il decreto di approvazione delle Conferenze di Servizi adottato da un dirigente, invece che dal Ministro dell'Ambiente.
    La doglianza, ove accolta, determinerebbe l'obbligo per il Collegio di rimettere l'affare alla competente autorità, restando precluso l'esame degli ulteriori motivi di censura, al fine di evitare intromissioni improprie nell'attività dell'organo riconosciuto come competente, ai sensi dell'art. 26, secondo comma, della l. n. 1034/1971, e ora dell'art. 34, co. 2, cod. proc. amm. (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. IV, 20 luglio 2009, n. 4568).
    3.1. La tesi di parte va, tuttavia, disattesa.
    Secondo l'avviso già espresso dalla Sezione e dal quale non si ravvisano motivi per discostarsi, il decreto di recepimento delle determinazioni conclusive della conferenza di servizi decisoria relativa ad un sito di bonifica di interesse nazionale costituisce un mero atto di gestione, di competenza dirigenziale e non del Ministro, atteso che esso non concerne le scelte di fondo che la p.a. è chiamata a compiere in materia di bonifica, avendo invece ad oggetto la prescrizione di un singolo intervento di messa in sicurezza d'emergenza e, poi, di bonifica (T.A.R. Toscana, sez. II, 25 novembre 2009, n. 2088).
    3.2. Ed invero, l'art. 252 del d.lgs. n. 152/2006 (applicabile al procedimento in forza della disposizione transitoria di cui all'art. 265 d.lgs. n. 152 del 2006) distingue tra atti ed attività di competenza del Ministro dell'Ambiente ed atti e attività facenti capo al Ministero. Rientra ad es. tra i primi l'individuazione, ai fini della bonifica, dei siti di interesse nazionale (art. 252, comma 2, cit.), il che è del tutto logico, dovendo la suddetta individuazione reputarsi atto attinente all'indirizzo politico-amministrativo in materia di bonifica. La rilevanza politica di un tale atto risulta, del resto, confermata dalla necessità dell'intesa con le Regioni interessate: intesa prescritta, per l'appunto, dal comma 2 dell'art. 252. Si deve invece reputare che l'impugnato decreto di recepimento della Conferenza di Servizi costituisca un mero atto di gestione, di competenza dirigenziale e non del Ministro, atteso che esso certamente non concerne le scelte di fondo che la P.A. è chiamata a compiere nel settore in esame (come ad es., la mappatura dei siti di interesse nazionale), avendo invece ad oggetto la prescrizione di un singolo intervento di messa in sicurezza d'emergenza e, poi, di bonifica.
    Del resto, l'art. 252, comma 4, del d.lgs. n. 152 cit. attribuisce la competenza per i procedimenti di bonifica di cui al precedente art. 242, qualora abbiano ad oggetto i siti di interesse nazionale, "alla competenza del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio": né una simile espressione può esser considerata atecnica o comunque non voluta e casuale, poiché essa si inserisce in una disposizione (l'art. 252 cit.) in cui, come accennato, quando ci si vuole riferire alle competenze del Ministro dell'Ambiente, lo si dispone espressamente, stabilendo che l'atto compete al "Ministro" e non al "Ministero" (in tal senso cfr. anche T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 9 ottobre 2009, n. 1738).
    3.3. Peraltro, la doglianza si palesa sotto altro profilo condivisibile.
    Lamenta, infatti, la ricorrente che nella fattispecie si sia violato il precetto contenuto nell'art. 252, co. 4, d.lgs. n. 152/2006 secondo cui "La procedura di bonifica di cui all'articolo 242 dei siti di interesse nazionale è attribuita alla competenza del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, sentito il Ministero delle attività produttive" (ora Ministero dello sviluppo economico).
    A più forte ragione si ritiene pretermesso, ove ritenuto applicabile ratione temporis, l'art. 15, co. 4, del d.m. n. 471/1999 a tenore del quale nel procedimento de quo si rende necessario il "concerto" con gli altri dicasteri interessati.
    Ebbene, dall'esame degli atti risulta evidente che il Ministero dello sviluppo economico, oltre a non aver partecipato ad alcuna delle conferenze istruttorie e decisorie che hanno preceduto l'emissione dei decreti avversati, neppure consta essere stato "sentito" successivamente, prima della definitiva assunzione dei provvedimenti conclusivi.
    Né può ritenersi che tale omissione rivesta carattere meramente formale essendo pacifico che ove la sequenza procedimentale necessiti per la sua formazione il parere o il concerto con altra autorità la sua omissione ne vizia gli esiti conclusivi (cfr. T.A.R. Marche, 23 novembre 2011, n. 877; T.A.R. Lazio, sez. I, 1 agosto 2011, n. 6858).
    4. Fondati si manifestano, altresì il terzo e quarto motivo con cui D. Livorno lamenta la contraddittorietà tra gli esiti dell'istruttoria e le conclusioni raggiunte dalle Conferenze di servizi, poi fatte proprie dal Direttore generale per la qualità della vita del Ministero dell'ambiente con i decreti qui avversati, in merito alla responsabilità della medesima nell'aver causato la contaminazione rilevata con conseguente violazione degli artt. 239 e segg. del d.lgs. n. 152/2006 e dell'art. 17 d.lgs. n. 22/1997, nonché del d.m. n. 471/1999.
    4.1. In proposito occorre premettere che la giurisprudenza assolutamente prevalente è nel senso che le norme appena citate non consentono all'Amministrazione procedente di imporre ai privati che non abbiano alcuna responsabilità, né diretta, né indiretta sull'origine del fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali proprietari o gestori o addirittura in ragione della mera collocazione geografica del bene, l'obbligo di bonifica di rimozione e di smaltimento dei rifiuti e, in generale, della riduzione al pristino stato dei luoghi che è posto unicamente in capo al responsabile dell'inquinamento, che le autorità amministrative hanno l'onere di ricercare ed individuare. Ai fini della responsabilità in questione è perciò necessario che sussista e sia provato, attraverso l'esperimento di adeguata istruttoria, l'esistenza di un nesso di causalità fra l'azione o l'omissione e il superamento - o pericolo concreto ed attuale di superamento - dei limiti di contaminazione, senza che possa venire in rilievo una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell'immobile meramente in ragione di tale qualità (cfr. Cons. Stato sez. VI 18 aprile 2011, n. 2376; id., Sez. V, 19 marzo 2009, n. 1612; T.A.R Campania, Napoli, sez. V, 1 marzo 2012, n. 1073; T.A.R. Toscana, sez. II, 3 marzo 2010, n. 594; id. 1 aprile 2011, n. 565).
    4.2. Alla luce delle superiori considerazioni, appare evidente che, nel sistema sanzionatorio ambientale, il proprietario del sito inquinato è senza dubbio soggetto diverso dal responsabile dell'inquinamento. Mentre su quest'ultimo gravano, oltre altri tipi di responsabilità da illecito, tutti gli obblighi di intervento, di bonifica e lato sensu ripristinatori, previsti dal Codice dell'ambiente (in particolare, dagli artt. 242 ss.), il proprietario dell'immobile, pur incolpevole, non è immune da ogni coinvolgimento nella procedura relativa ai siti contaminati e dalle conseguenze della constatata contaminazione dovendo egli, infatti, attuare le misure di prevenzione di cui all'art. 242, nonché potendo sempre attivare volontariamente gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale.
    Più in particolare, ciò significa che il proprietario, ove non sia responsabile della violazione, non ha l'obbligo di provvedere direttamente alla bonifica, ma solo l'onere di farlo se intende evitare le conseguenze derivanti dai vincoli che gravano sull'area sub specie di onere reale e di privilegio speciale immobiliare (ex multis, Cons. Stato sez. V, 5 settembre 2005, n. 4525).
    4.3. Orbene, nel caso all'esame, emerge dagli atti istruttori delle conferenze di servizio l'insufficienza delle indagini eseguite e poste a fondamento dell'obbligo della deducente di procedere alla messa in sicurezza d'emergenza della falda acquifera del sito in questione, nonché la contraddittorietà della condotta dell'Amministrazione procedente.
    Anche a prescindere dal repentino mutamento della condotta del Ministero, inizialmente incline a procedere in maniera congiunta e coordinata, previo approfondimento delle indagini istruttorie, all'attività di messa in sicurezza di emergenza, e poi determinatosi a omettere, senza alcuna motivazione lo svolgimento dell'istruttoria commissionata a S., va posto in evidenza che nei provvedimenti non vengono individuati collegamenti fattuali tra l'attività svolta dalla ricorrente (che, si rammenta, si occupa di stoccaggio e movimentazione di metanolo) e le fonti della contaminazione rilevate.
    5. Inoltre, e ciò consente di condividere anche le censure avanzate con il quinto e sesto motivo, in ordine alla sussistenza dei presupposti per la messa in sicurezza d'emergenza.
    5.1. Si osserva in proposito che l'art. 240, co. 1, lett. i) definisce le misure di prevenzione come "le iniziative per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia" e ciò quando venga accertato il superamento delle "concentrazioni soglia di rischio (CSR)" che la lettera c) dello stesso comma indica come "i livelli di contaminazione delle matrici ambientali, da determinare caso per caso con l'applicazione della procedura di analisi di rischio sito specifica secondo i principi illustrati nell'Allegato 1 alla parte quarta del presente decreto e sulla base dei risultati del piano di caratterizzazione, il cui superamento richiede la messa in sicurezza e la bonifica.".
    Analoghi presupposti sono individuati nell'art. 2, d.m. 25 ottobre 1999 n. 471 secondo cui la misura straordinaria della messa in sicurezza d'emergenza, è quella relativa ad "ogni intervento necessario ed urgente per rimuovere le fonti inquinanti, contenere la diffusione degli inquinanti e impedire il contatto con le fonti inquinanti presenti nel sito, in attesa degli interventi di bonifica e ripristino ambientale o degli interventi di messa in sicurezza permanente".
    5.2. Fermo restando che non sussiste in capo al proprietario di un'area inquinata non responsabile dell'inquinamento l'obbligo di porre in essere interventi di messa in sicurezza d' emergenza, ma solo la facoltà di eseguirli per mantenere l'area interessata libera dall'onere reale che incombe sull'area de qua ai sensi dell'art. 253 del d.lgs. n. 152/2006, la Sezione ha già avuto modo di affermare in proposito che nel caso della bonifica dei siti di interesse nazionale, l'imposizione di misure di messa in sicurezza d' emergenza ulteriori rispetto a quelle già adottate, deve essere adeguatamente motivata con riferimento all'urgenza, al pericolo per la salute e all'inadeguatezza delle misure preesistenti, al fine di garantire il rispetto del principio di trasparenza e del contraddittorio con i destinatari delle prescrizioni (T.A.R. Toscana, sez. II, 22 dicembre 2010, n. 6798; id. 26 luglio 2010, n. 3140).
    5.3. Non può essere sufficiente, a tale fine, il mero richiamo al riscontrato superamento di alcuni limiti tabellari di cui al DM n. 471/99 per determinate sostanze senza un approfondimento, quantomeno sommario, ma pur sempre completo, al fine di individuare un pericolo per la salute che imponeva un intervento in termini così immediati, in considerazione anche delle caratteristiche della falda sottostante al sito ed alle sue capacità "migratorie" a valle.
    D'altro canto, a chiusura del sistema così delineato, giova osservare che l'art. 240, co. 1, lett. t) del d.lgs. n. 152/2006 definisce quali condizioni di emergenza cui corrispondono obblighi di messa in sicurezza: le concentrazioni attuali o potenziali dei vapori in spazi confinati prossime ai livelli di esplosività o idonee a causare effetti nocivi acuti alla salute; la presenza di quantità significative di prodotto in fase separata sul suolo o in corsi di acqua superficiali o nella falda; la contaminazione di pozzi ad utilizzo idropotabile o per scopi agricoli; il 4) pericolo di incendi ed esplosioni.
    Ebbene, nessuna di tali situazioni viene evidenziata dall'Amministrazione procedente come sussistente nel sito in questione.
    6. Ne segue, per tutte le considerazioni esposte, ed assorbiti gli ulteriori motivi, che il ricorso deve essere accolto con la conseguente caducazione degli atti impugnati.
    Le spese del giudizio seguono la soccombenza come in dispositivo liquidate.
    P. Q. M.
    Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Seconda) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l'effetto, annulla gli atti impugnati.
    Condanna il Ministero dell'ambiente e tutela del territorio e del mare al pagamento delle spese di giudizio che si liquidano forfettariamente in euro 3.000,00, oltre IVA e CPA.
    Compensa le spese di giudizio nei confronti delle altre Amministrazioni.
    Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
    Così deciso in Firenze nella camera di consiglio del giorno 19 giugno 2012 con l'intervento dei magistrati:
    IL PRESIDENTE F.F.
    Luigi Viola
    L'ESTENSORE
    Bernardo Massari
    IL PRIMO REFERENDARIO
    Ugo De Carlo
    Depositata in Segreteria il 19 settembre 2012
    (Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
     


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